LA DIVERSITÀ DELLE GIURISDIZIONI E LA CONCENTRAZIONE DELLE TUTELE.

LA TRANSLATIO IUDICII E IL NUOVO CONCETTO DI GIURISDIZIONE.

Prof. Avv. Carlo Malinconico
Ordinario di Diritto dell’Unione Europea presso l’Università Tor Vergata di Roma

Sommario. 1. L’aspirazione all’unità della giurisdizione all’indomani dell’unificazione e la pluralità delle giurisdizioni nella Costituzione italiana. 2. I criteri fondamentali del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo: natura pubblica ed indisponibile degli stessi. La rilevabilità d’ufficio. 3. La cooperazione delle giurisdizioni: il diritto affievolito e il diritto in attesa di espansione. 4. La crisi del modello: l’ordinamento comunitario e la risarcibilità delle posizioni soggettive a prescindere dalla loro qualificazione come diritti soggettivi. La legislazione del 1998 e la sentenza n. 500 del 1999 della Corte di cassazione. 5. L’esigenza di concentrazione delle tutele e la ragionevole durata del processo. L’espansione della giurisdizione esclusiva.- 6. La sentenza della Corte costituzionale del 2004. 7. La crescente difficoltà d’individuazione della giurisdizione. Gli effetti del principio della “perpetuatio iurisdictionis”. 8. La “svolta del 2007”: la sentenza 22 febbraio 2007, n. 4109, Corte di cassazione SS.UU.CC. e la sentenza 12 marzo 2007, n. 77, della Corte costituzionale: la translatio iudicii come conseguenza dell’evoluzione dell’ordinamento. 9. L’intervento legislativo: la legge 18 giugno 2009, n. 69: l’adeguamento alla dichiarazione d’incostituzionalità e la delega per il riassetto del processo amministrativo.- 10. L’affievolimento del valore della giurisdizione. Dalla giurisdizione nei confronti dello straniero, al giudicato implicito sulla giurisdizione, alla translatio iudicii.- 11. Considerazioni conclusive in tema di translatio iudicii, di unità della giurisdizione e di soluzione dei conflitti. L’ordinamento è pronto per un Tribunale dei conflitti?

 

1. L’aspirazione all’unità della giurisdizione all’indomani dell’unificazione e la pluralità delle giurisdizioni nella Costituzione italiana.

Nei lavori preparatori della Costituzione italiana si riscontra un dibattito intenso sull’unità della giurisdizione.

Da una parte, infatti, l’unità della giurisdizione costituiva il parametro fondamentale di organizzazione dell’ordine giudiziario, garantito da determinate guarentigie e da un organo di “autogoverno”, il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dalla più alta delle autorità neutrali: il Presidente della Repubblica.

Dall’altro, la tradizione consegnava ai costituenti le magistrature “specializzate” ed in primis il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, che avevano dato così buona prova d’indipendenza da assicurare standard non inferiori a quelli del giudice ordinario.

La ragione, com’è noto, si rinveniva proprio nella storia dell’ordinamento italiano.

La legge abolitiva del contenzioso amministrativo (legge 20 maro 1865, n. 2248, (All. E) aveva perseguito lucidamente l’obiettivo di concentrare la funzione giurisdizionale, quantunque vi fosse interessata una pubblica amministrazione, in capo al giudice per antonomasia: il giudice ordinario ([1]).

Solo in seguito si constatò che in questo modo venivano ad essere prive di tutela giurisdizionale posizioni soggettive meno qualificate del diritto soggettivo, perché contrapposte non a posizioni passive (obblighi, oneri, soggezioni, ecc.) bensì ad una posizione attiva, qual è la potestà della pubblica amministrazione; posizioni, tuttavia, assolutamente rilevanti per l’esercizio di fondamentali attività – specie economiche – dei destinatari.

Tale constatazione convinse dell’opportunità d’introdurre un rimedio appropriato.  Sennonché, invece di affinare i poteri del giudice ordinario, si scelse di affidare la tutela giurisdizionale di queste posizioni ad un organo terzo rispetto all’amministrazione, ma specializzato e avvezzo alla considerazione del continuo fluire dell’azione pubblica: il Consiglio di Stato in funzione giurisdizionale. Nacque così la IV Sezione del Consiglio di Stato nel 1889. D’altro lato si affermava il ruolo della Corte dei conti quale giudice contabile.

Il costituente del 1948 scelse, dunque, la permanenza di questi giudici, sottratti alla categoria dei giudici speciali, aborrita dalla Costituzione e da questa eliminata. Il giudice amministrativo, grazie alla sua generale azione di legittimità sugli atti dell’amministrazione aveva, del resto, ormai assunto la caratterizzazione di giudice “ordinario” dell’azione amministrativa.

Lo sviluppo naturale di tale impostazione ha poi portato ad un’assimilazione sempre più stretta di status giuridico del giudice amministrativo al giudice ordinario ed alla previsione di organi di “autogoverno” simili. Si è prevista anche la possibilità di mobilità orizzontale tra le magistrature. Ma i corpi magistratuali, con le loro differenti sensibilità ed esperienze, sono restati distinti e talora in competizione tra loro proprio nella delimitazione dei rispettivi ambiti di giurisdizione.

Certo, la salvaguardia dell’esperienza e della professionalità di magistrati specializzati nel sindacato giurisdizionale, per definizione terzo e imparziale, sulla funzione pubblica costituisce un elemento positivo. Troppo spesso si sono nel nostro Paese abbandonate soluzioni tradizionali, solo perché tali, eliminando la continuità del sistema.

Ciò visto dal diritto interno.

Ma per l’osservatore esterno la stessa esistenza di un giudice specifico per l’amministrazione, diverso e distinto dal giudice dei normali rapporti giuridici, suona negativamente. E nella competizione tra ordinamenti, propria del mondo globalizzato, la particolarità può essere causa distorsiva, nel senso che potrebbe essere (e talora è) vista come elemento d’incertezza, costituente una sorta di “rischio Paese”, la presenza di un giudice ad hoc per l’esecutivo.

Va, dunque, prestata massima attenzione alla soluzione dei problemi connessi all’unità sostanziale della giurisdizione e al metodo di riparto delle giurisdizioni, perché le peculiarità del sistema siano tutelate senza eccessi.

 

2. I criteri fondamentali del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo: natura pubblica ed indisponibile degli stessi. La rilevabilità d’ufficio.

I criteri fondamentali del riparto delle giurisdizioni erano fatti proprio per escludere il più possibile interferenze ed affermare il principio cardine della democrazia occidentale: la separazione dei poteri([2]).

Da una parte il giudice ordinario, giudice dei diritti, appartenente ad un Ordine che esercita un potere separato da quello esecutivo e legislativo.

Dall’altra il giudice amministrativo, giudice della funzione pubblica e dell’interesse legittimo.

Ne era corollario l’impossibilità per il giudice ordinario di annullare, modificare o sospendere l’atto amministrativo, con lo speculare potere generale del giudice amministrativo di annullare o sospendere l’atto, salve le questioni patrimoniali consequenziali di competenze del giudice ordinario, in quanto comportanti un accertamento ulteriore a quello richiesto e necessario per l’annullamento.

A garanzia oggettiva del sistema era posto il principio per cui i criteri di ripartizione si fondano sulla rilevanza sostanziale delle posizioni giuridiche fatte valere dalle parti e non sulla prospettazione da queste fornitane.

L’affinamento giurisprudenziale e dottrinario ha portato a configurare il difetto di giurisdizione sia come difetto esterno, in base alla posizione giuridica fatta valere in giudizio (causa petendi), sia come difetto interno: proponibilità della sola domanda di annullamento, e in limitati casi di condanna, al giudice amministrativo; di mero accertamento, con esclusi ione delle azioni costitutive o di condanna ad un fare infungibile per il giudice ordinario nei confronti di una pubblica amministrazione che agisce come potere pubblico autoritativo e non uti civis.

Il potere del giudice ordinario di disapplicare l’atto amministrativo illegittimo, e quindi di decidere sui diritti, prescindendo da tale atto – solo incidentalmente interessato dalla lite – era riconosciuto sin dalla legge abolitiva del contenzioso amministrativo (legge 20 maro 1865, n. 2248, All. E), ma solo a fronte di una posizione azionata dal privato, avente, originariamente e non a seguito della pronuncia del giudice adito, natura di pieno diritto soggettivo.

Proprio la rispondenza a limiti – si direbbe – di ordine pubblico, rispondenti a ragioni organizzative di pubblici uffici, tra le due giurisdizioni, ordinaria e amministrativa, con differenti competenze funzionali e con differenti poteri nei confronti della pubblica amministrazione, portava al principio della rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione in ogni stato e grado del processo.

Storicamente, del resto, questo punto di arrivo era dovuto a una lunga evoluzione.

Il criterio di riparto delle giurisdizioni, infatti, era stato elaborato per evitare che si verificassero interferenze tra i due ordini di giudici, con l’obiettivo, peraltro, di accordare effettiva ed integrale tutela al privato nei confronti di atti o comportamenti illegittimi della pubblica amministrazione. Quindi, da un lato, vi era il giudice ordinario quale giudice dei diritti e dall’altro vi era il giudice amministrativo quale giudice della funzione pubblica e dell’interesse legittimo ([3]).

Peraltro, in quella prima fase dell’unità nazionale, la legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato (legge 31 marzo 1889, n. 5992) ([4]) non aveva ancora codificato la categoria degli interessi legittimi.

L’articolo 3, infatti, prevedeva che “spetta alla sezione quarta del Consiglio di Stato di decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici, quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione od alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali” ([5]).

Insomma, la giurisdizione del Consiglio di Stato era qualificata dall’oggetto (azione di annullamento per i tre classici vizi dell’azione amministrativa) e dalla residualità: non essere la controversia di competenza del giudice ordinario.

La nozione di interesse legittimo è nata e si è sviluppata nella sua attuale connotazione per merito dell’elaborazione giurisprudenziale del Consiglio di Stato, il cui ordinamento si completò successivamente alla legge n. 5992 del 1889, con la legge 7 marzo 1907, n. 62, e il decreto legislativo 5 maggio 1948, n. 642, rispettivamente istitutivi delle Sezioni V e VI.

A cavallo tra il XIX ed il XX secolo, il dibattito apertosi sull’individuazione della nozione d’interesse legittimo, quale posizione giuridica soggettiva dirimente ai fini della individuazione della giurisdizione, sfociò nella necessaria risoluzione di un problema di natura processuale: quello dell’individuazione degli elementi della domanda giudiziale in base ai quali valutare se il soggetto che agiva in giudizio facesse valere un interesse devoluto dalla legge alla giurisdizione del giudice amministrativo o meno.

A seguito della sentenza della Cassazione, Sezioni Unite, 24 giugno 1891, n. 460 ([6]), si affermò in giurisprudenza il criterio cd. del petitum ([7]): posto che l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte del giudice amministrativo consisteva per legge nell’esercizio del potere di annullamento di provvedimenti illegittimi, nel caso in cui il diritto soggettivo fosse stato leso da un atto della pubblica amministrazione, il titolare doveva adire il giudice amministrativo al fine di ottenerne l’annullamento.

Tale giurisprudenza non distingueva, pertanto, tra le due situazioni giuridiche del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo rendendo possibile far valere come interessi i diritti soggettivi, con una sorta di continenza tra le due posizioni soggettive: i diritti erano posizioni soggettive più garantite degli interessi legittimi e, quindi, potevano essere fatti valere anche come interessi per ottenere di fruire della relativa tutela.

Tuttavia, fu la medesima giurisprudenza, a partire dagli anni ’30, ad  abbandonare tale criterio, che portava ad aprire la strada ad una doppia tutela, nel senso che la medesima posizione giuridica soggettiva poteva essere fatta valere alternativamente o cumulativamente innanzi al giudice ordinario e al giudice amministrativo([8]). Fu, quindi, prescelto il criterio di riparto basato sulla diversa situazione giuridica soggettiva tutelata, detto criterio della “causa petendi” o del “petitum sostanziale”.

Secondo tale criterio, rientravano nella giurisdizione del giudice ordinario le controversie vertenti sui diritti soggettivi, mentre rientravano nella giurisdizione del giudice amministrativo le controversie vertenti sugli interessi legittimi. La distinzione portava così ad esaltare, in un primo momento sotto il profilo processuale, la posizione d’interesse legittimo, che si sviluppò dapprima appunto sul piano della tutela e, solo successivamente, sul piano sostanziale. Al punto che, secondo una parte della dottrina, l’interesse legittimo si presentava come una “figura nata per dare un fondamento sostanzialistico al criterio di riparto fra le giurisdizioni ([9])”.

Per quanto qui rileva, vale solo ricordare che dal punto di vista sostanziale l’interesse legittimo è stato configurato via via in modo diverso. Innanzitutto quale interesse occasionalmente o indirettamente protetto ([10]), quando ancora esso tendeva ad assumere rilievo solo nella fase contenziosa. Poi, più recentemente, come interesse discrezionalmente protetto, quale posizione attiva sì ma non assicurata dalla legge nella sua piena soddisfazione bensì solo tramite l’esercizio della discrezionalità propria della funzione pubblica.

L’interesse legittimo, talora passando per una definizione intermedia di “pretesa del privato alla legittimità dell’azione della pubblica amministrazione” ([11]), evolveva  sempre più da posizione strumentale e processuale a posizione sostanziale, con vita autonoma anche nel procedimento amministrativo ([12]).

Va aggiunto che, proprio per non ricadere nel difetto della “doppia tutela” basata sulla configurazione di parte attrice, il criterio di riparto non poggiava sulla prospettazione della situazione giuridica soggettiva contenuta nella domanda, bensì sulla valutazione concreta – da parte del giudice – dell’effettiva natura della posizione medesima, fosse essa diritto soggettivo ovvero interesse legittimo ([13]). Tale osservazione avvalorava la valenza tipicamente pubblica e indisponibile propria della giurisdizione.

D’altra parte, la qualificazione sostanziale della posizione giuridica soggettiva in concreto fatta valere in giudizio e l’affidamento al giudice di tale valutazione portarono naturalmente alla previsione della rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione.

L’effetto di tale rilevazione fu configurato diversamente dal giudice ordinario rispetto al giudice amministrativo. Infatti, mentre nel caso d’insussistenza di una posizione di diritto soggettivo il giudice ordinario adito emanava una pronuncia di rigetto della domanda per infondatezza, invece, il giudice amministrativo, nel caso di insussistenza dell’interesse legittimo, era solito dichiarare inammissibile il ricorso, pronunciandosi su di una questione preliminare di rito anziché nel merito.

Lo sviluppo sin qui richiamato trovò espressione negli articoli 24, 103 e 113 della Costituzione, che hanno attribuito rilievo costituzionale al riparto della giurisdizione fondando il limite esterno delle giurisdizioni sulla diversa situazione giuridica soggettiva tutelata ([14]).

L’individuazione del giudice fornito di giurisdizione comportava, con riferimento all’effettiva tutela garantita al privato cittadino nei confronti di atti o comportamenti illegittimi della pubblica amministrazione, necessarie differenze di petitum e cioè di proponibilità della domanda. In altre parole, diversi sono i limiti interni della giurisdizione ordinaria e della giurisdizione amministrativa ([15]).

L’azione tipica e generale a tutela degl’interessi legittimi innanzi al giudice amministrativo è un’azione costitutiva e il processo amministrativo è stato tradizionalmente configurato come processo di tipo impugnatorio preordinato ad ottenere una sentenza di annullamento del provvedimento impugnato.

Viceversa, per quanto concerneva la giurisdizione del giudice ordinario per la tutela di diritti soggettivi nei confronti della pubblica amministrazione, l’articolo 4 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo (legge 20 maro 1865, n. 2248, All. E)prevedeva il “divieto di revocare o modificare” l’atto amministrativo. Tale locuzione è stata interpretata in maniera estensiva dalla giurisprudenza, fino a considerare esclusa dalla giurisdizione ordinaria qualsiasi espressione di attività amministrativa che non fosse riconducibile al mero diritto privato. Ne derivava che nei confronti dell’esercizio di pubblici poteri da parte di una pubblica amministrazione, il privato poteva solo proporre domande o di mero accertamento del diritto fatto valere in giudizio o di condanna ad un dare fungibile (in generale, il pagamento di una somma di denaro).

Si escludeva, pertanto, che il giudice ordinario potesse emanare sentenze di tipo costitutivo, poiché implicavano sostanzialmente la revoca dell’atto amministrativo o la sostituzione del giudice all’amministrazione nel compimento di una sua attività propria, esterna o interna al proprio apparato in quanto necessaria al compimento dell’attività di rilevanza esterna.

Né poteva essere altrimenti, perché, in forza dell’articolo 4 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo, il giudizio di cui tale norma si occupa ha come oggetto la lesione del diritto e non già la legittimità dell’atto. E poiché la lesione è prodotta dagli effetti del provvedimento, è agevole comprendere la ragione per cui il giudice, chiamato a giudicare della lesione del diritto, si disinteressi dell’atto in quanto tale, limitandosi a disapplicarlo – in sede di cognizione incidentale – e lasciando all’amministrazione l’obbligo – se necessario – di adeguarsi al giudicato per quanto concerne il solo caso deciso([16]).

L’articolo 5 prevedeva che “in questo, come in ogni altro caso le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi”.

È interessante notare, sotto il profilo sostanziale, che l’atto inefficace veniva così in dottrina ([17]) ricompreso nelle (poche) ipotesi di nullità dell’atto amministrativo. Categoria poi ampliata di recente con dubbia utilità dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, come modificata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15.

Proprio per evitare che la disapplicazione si traducesse in una mobile linea di demarcazione tra le giurisdizioni, la dottrina e la giurisprudenza la limitavano a casi nei quali il privato non vantava nei confronti dell’atto, qualunque fosse la configurazione di parte, un interesse legittimo: doveva trattarsi di un diritto soggettivo o di un interesse semplice([18]). Classico il caso della controversia tra privati in cui sia dedotto a sostegno di una delle parti un atto amministrativo o anche tra privato e pubblica amministrazione nella lite, in cui l’oggetto della controversia sia un atto dell’amministrazione non incidente su una posizione differenziata del privato o ancora il caso dell’atto amministrativo che integri la fattispecie penale.

In conclusione su questo punto, può osservarsi che tradizionalmente i poteri attribuiti al giudice ordinario ed al giudice amministrativo davano vita ad un sistema di giustizia imperniato su due giurisdizioni nettamente distinte e separate tra loro sia in termini di accesso al giudice sia in termini di proponibilità della domanda al giudice correttamente adito. In entrambi i casi la distinzione veniva dalla dottrina e dalla giurisprudenza configurata come rispondente ad una modalità organizzativa dei pubblici poteri, non disponibile dalle parti e rilevabile quindi ex officio dal giudice.

 

3. La cooperazione delle giurisdizioni: il diritto affievolito e il diritto in attesa di espansione.

Separatezza, peraltro, non è mai stata sinonimo di mancanza di intrecci tra le due giurisdizioni sopra richiamate.

Per il privato il patrimonio si compone di interessi tutelati giuridicamente, anche se la tutela è di diversa natura ed efficacia. La dottrina ha, anzi, ben presto evidenziato che – a fronte di un comportamento lesivo del patrimonio – l’interesse materiale del privato spesso necessita del ricorso a diversi strumenti di tutela che solo combinandosi tra loro possono restituire al privato, in via specifica o per equivalente, la completezza dei suoi beni.

Si parlò, in questi casi, di cooperazione delle giurisdizioni ([19]).

Si osservava che la cooperazione è necessaria in diversi casi e, sinteticamente, quando il privato deve difendersi contestualmente contro una pubblica amministrazione e contro altri privati, diverse essendo le posizioni delle quali le controparti sono titolari, o quando le posizioni si alternano in successione, come nel caso del diritto affievolito, almeno nella spiegazione del fenomeno fornita originariamente dalla dottrina amministrativa.

Quanto a quest’ultimo caso, a fronte della tradizionale teoria dell’irrisarcibilità dell’interesse legittimo, venne ben presto evidenziato che quando l’interesse legittimo convive col diritto soggettivo che ne costituisce anzi il titolo fondante, l’azione dell’amministrazione basata su un atto amministrativo limitativo del diritto, in caso di annullamento o auto annullamento dell’atto, è azione sine titulo, non solo illegittima ma anche illecita e lesiva del diritto soggettivo, “risorto” a seguito dell’annullamento dell’atto amministrativo, che lo aveva illecitamente compresso.

Si insegnava, dunque, che era necessario guardare alla posizione soggettiva precedente all’adozione dell’atto annullato: se questa era di diritto soggettivo, poteva essere richiesto il risarcimento del danno al giudice ordinario ed operava una cooperazione successiva tra giurisdizioni. Prima doveva essere adito il giudice amministrativo per ottenere l’annullamento dell’atto illegittimo e poi il giudice ordinario per l’ordinaria repressione dell’illecito aqiuiliano attraverso il risarcimento del danno.

Se, invece, la posizione iniziale era di mero interesse legittimo, l’annullamento dell’atto impeditivo dell’espansione dell’interesse legittimo alla posizione di diritto soggettivo non per questo costituiva in capo al ricorrente la posizione di diritto soggettivo leso. Con la conseguenza di non consentire l’azione di risarcimento davanti al giudice ordinario dopo il ricorso per annullamento davanti al giudice amministrativo. Era un modo per dire che l’annullamento e la soddisfazione per tale via dell’interesse legittimo non assicurano l’esito finale auspicato dal suo titolare, perché di regola l’annullamento non vincola completamente il potere nel suo nuovo esercizio. Insomma il patrimonio, proprio per questa incertezza di finalizzazione della posizione dinamica di interesse legittimo, non può già computare il valore tra i beni giuridici componenti il patrimonio stesso.

La cooperazione tra le giurisdizioni portava a due difetti di immediata percezione: quando operava, come nel caso del diritto affievolito, non assicurava snellezza e durata ragionevole del processo; quando non operava, come nel caso di diritto in attesa di espansione, ad esempio del privato in attesa di autorizzazione per avviare un’attività economica, escludeva in ogni caso per il privato e a prescindere dalla consistenza della pretesa, il risarcimento di un danno anche economico, confinato alla sfera del “mero fatto” e non del danno ingiusto (damnum iniuria datum).

L’atteggiamento della dottrina maggioritaria era nel senso di non mutare il sistema, nonostante si rivelasse palese che, basandosi su di un rigido riparto delle giurisdizioni, esso fosse poco garantistico. Tale separazione si consolidò nel tempo, anche considerato il generale orientamento contrario alla tutela aquiliana degli interessi legittimi([20]).

In particolare, la dottrina non riconosceva la risarcibilità dell’interesse legittimo proprio in quanto inconciliabile con il predetto sistema di riparto, nonché con il criterio del cd. “petitum sostanziale”. Escluso che il giudice amministrativo potesse accordare tutela risarcitoria, si riteneva che la devoluzione al giudice ordinario (ancorché in seconda battuta rispetto all’annullamento del provvedimento da parte del giudice amministrativo) del compito di riconoscere all’interesse legittimo la tutela apprestata dall’articolo 2043 c.c., debordasse in un’alterazione del sistema normativo che identificava il giudice amministrativo come giudice naturale dell’interesse legittimo.

Ma, pur rispondendo a esigenze interne risalenti nel tempo, l’assetto che ne derivava in ordine alla risposta giurisdizionale alle esigenze di giustizia appariva troppo legata a peculiarità tutte italiane.

Il che difficilmente poteva sopravvivere senza contraccolpi in considerazione dell’integrazione europea, della globalizzazione dei rapporti economici e della competizione tra sistemi giuridici.

 

4. La crisi del modello: l’ordinamento comunitario e la risarcibilità delle posizioni soggettive a prescindere dalla loro qualificazione come diritti soggettivi. La legislazione del 1998 e la sentenza n. 500 del 1999 della Corte di cassazione.

4.1– Ed infatti, un primo significativo intervento su tale assetto venne dalla Comunità europea.

Al fine di assicurare reali condizioni di concorrenza tra le imprese comunitarie nel settore degli appalti, infatti, la Comunità economica europea emanò la direttiva CEE 21 dicembre 1989, n. 665, (cosiddetta “direttiva ricorsi”), che impone agli Stati membri di istituire una procedura di ricorso efficace e quanto più rapida possibile (articolo 1).

Gli Stati membri devono in particolare prevedere rimedi che consentono di:

“a) prendere con la massima sollecitudine e con procedura d’urgenza provvedimenti cautelari intesi a riparare la violazione denunciata o ad impedire che altri danni siano causati agli interessi coinvolti, compresi i provvedimenti intesi a sospendere o a far sospendere la procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico o l’esecuzione di qualsiasi decisione presa dall’amministrazione aggiudicatrice;”

“b) annullare o far annullare le decisioni illegittime, (…);”

“c) accordare un risarcimento danni ai soggetti lesi dalla violazione”.

La direttiva consente, peraltro, che i poteri sopra richiamati siano conferiti ad organi distinti, responsabili di aspetti differenti della procedura di ricorso. Ed è interessante notare che la direttiva si propone di impedire che il contratto sia stipulato prima che l’organo indipendente adito abbia potuto prendere cognizione della domanda di provvedimenti cautelari (paragrafo 3) ([21]) proprio per gli effetti che, in materia di tutele del controinteressato, provoca la stipulazione del contratto.

Ma resta salva la facoltà degli Stati membri di “prevedere che, se un risarcimento danni viene domandato a causa di una decisione presa illegittimamente, per prima cosa l’organo che ha la competenza necessaria a tal fine annulli la decisione contestata” (paragrafo 6) e rinvia al diritto nazionale l’effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto stipulato (paragrafo 7), eccetto che nei casi di cui agli articoli da 2 quinquies a 2 septies.

In ogni caso il diritto comunitario non costringe alla coesistenza dei due rimedi, annullatorio e risarcitorio, ben potendo lo Stato membro prevedere solo il rimedio risarcitorio una volta che il contratto è stato stipulato ([22]).

Insomma, il diritto comunitario consente che si preveda la pregiudizialità amministrativa e il doppio ordine di competenze successive, la prima di annullamento e la seconda di risarcimento del danno.

Consente, inoltre, che l’ordinamento dia, salvo casi limiti previsti dalla direttiva stessa ([23]), particolare efficacia al contratto già stipulato, nel senso di limitare in questo caso il rimedio al solo risarcimento del danno, ma non vincola a ciò.

Il vero limite per gli Stati è l’obbligo di effettività dei rimedi e di rapidità degli stessi.

Ed infatti, nel recepire tale previsione comunitaria, l’articolo 13 della legge 19 febbraio 1992,  n. 142 – confermato dall’articolo 30 del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 157, così come modificato dall’articolo 17 del decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 65 – stabiliva che i soggetti lesi a causa di “atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture o delle relative norme di recepimento” potessero chiedere all’amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno, prescrivendo, al secondo comma, che “la domanda risarcitoria fosse proponibile innanzi al giudice ordinario previo annullamento dell’atto lesivo ad opera del giudice amministrativo”.

Per la prima volta nel nostro ordinamento, ferma la pregiudizialità del ricorso al giudice amministrativo, si affermava il diritto al risarcimento del danno da violazione delle disposzioni che regolano l’aggiudicazione di appalti pubblici, senza la necessaria qualificazione della posizione soggettiva come diritto soggettivo. In altri termini, non distinguendo il diritto comunitario tra diritti e interessi, la tutela nell’ordinamento nazionale non poteva più rispondere al paradigma del diritto soggettivo o alla figura del semplice diritto affievolito.

A questo punto, dottrina e giurisprudenza iniziarono ad interrogarsi sulla portata di tale norma, analizzando se l’espresso riconoscimento della tutelabilità risarcitoria degli interessi legittimi nella materia degli appalti costituisse un’ipotesi settoriale ovvero avesse una valenza espansiva e generalizzabile.

A fronte di interpretazioni restrittive della Corte di Cassazione (cfr., ex multiis, Cass. Civ., Sez. Un., 5 marzo 1993, n. 2667), la dottrina maggioritaria metteva in evidenza che non poteva non riconoscersi carattere di preminenza alla normativa comunitaria.

In effetti la direttiva si era limitata a recepire principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale, a sua volta, si era preoccupata di garantire alle posizioni giuridiche di derivazione comunitaria un’effettività di tutela (inevitabilmente interferendo sulla conformazione dei mezzi di protezione predisposti dagli ordinamenti interni ed in particolare sul riparto delle giurisdizioni in Italia).

Tale giurisprudenza della Corte di Giustizia, pur rimettendo agli ordinamenti nazionali la concreta individuazione delle modalità e delle forme di tutela, aveva precisato che gli stessi ordinamenti dovevano garantire condizioni, non solo non inferiori rispetto a quelle previste per le posizioni fondate sul diritto nazionale e comunque tali da non rendere impossibile o eccessivamente difficoltoso l’esercizio, ma anche e soprattutto tali da rendere completa ed adeguata la protezione delle situazioni soggettive di origine comunitaria.

Attraverso il processo di “contaminazione” tra diritto comunitario e diritto nazionale, l’impatto della normativa europea sul diritto nazionale in tema di risarcibilità dell’interesse legittimo e, di converso, sul riparto tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa era prevedibile e si aggiungeva all’esigenza ormai avvertita di ricercare un assetto più concentrato della tutela giurisdizionale che garantisse effettività e rapidità di approdo alla decisione definitiva della lite.

4.2– A livello di legislazione nazionale, un primo passo in tal senso fu compiuto con gli articoli 33, 34 e 35 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80.

Queste norme si prefiggevano di riportare alla giurisdizione del giudice amministrativo le questioni patrimoniali consequenziali e quindi la materia del risarcimento del danno conseguente all’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo, di ampliare la giurisdizione esclusiva individuando alcuni “blocchi di materie” e di configurarla come una giurisdizione “piena”. Nelle materie affidate alla giurisdizione esclusiva il legislatore attribuiva al giudice amministrativo anche la cognizione dei profili risarcitori, consolidando la configurazione dello stesso giudice di giudice “ordinario” per la tutela dei privati contro atti e comportamenti della pubblica amministrazione.

4.3– A tale evoluzione reagiva la Corte di cassazione, che con la sentenza a Sezioni Unite n. 500 del 1999 ([24]) per la prima volta, in modo esplicito, riconosceva la risarcibilità degli interessi legittimi, attribuendo la giurisdizione sul danno dalla loro lesione al giudice ordinario ([25]).

È interessante osservare che la Corte fonda la propria giurisdizione non sulla natura sostanziale dell’interesse legittimo, ma su un diritto: non quello leso, ma quello al risarcimento del danno da danno ingiusto, con la precisazione che è non iure il danno arrecato al patrimonio in violazione delle norme di azione della pubblica amministrazione, cui si ricollega l’interesse legittimo.

In particolare la Corte di cassazione muove dal presupposto che l’articolo 2043 c.c. non è una norma sanzionatoria diretta a punire la lesione di posizioni protette da altre norme ma è essa stessa disposizione precettiva primaria, che fonda il diritto soggettivo al risarcimento del danno da lesione d’interessi tutelati. Ne deduce, quindi, che “il diritto al risarcimento del danno è diritto distinto dalla posizione giuridica soggettiva la cui lesione è fonte del danno ingiusto” e, come tale, ove non venga in rilievo una materia sussumibile nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, rientra naturalmente nella sfera di operatività della giurisdizione ordinaria.

Così impostato il tema e radicata la giurisdizione del giudice ordinario sull’articolo 2043 c.c., il problema della risarcibilità dell’interesse legittimo diviene un profilo di merito e non più di giurisdizione, sicché la Corte supera il precedente schema concettuale nel quale “il tema della risarcibilità degli interessi legittimi è stato in primo luogo affrontato ed esaminato, da queste S.U., sotto il profilo del difetto di giurisdizione”.

La medesima Corte, inoltre, mette in evidenza che, in precedenza, si era solo consolidato un assetto giurisprudenziale “caratterizzato dalla limitazione della tutela piena (di annullamento e, successivamente, risarcitoria, nelle due diverse sedi) ai soli “interessi legittimi oppositivi” (elevati a diritti soggettivi mediante operazioni di trasfigurazione)”.

“Ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana”, sottolinea la Corte, “non assume rilievo determinate la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante. (…) Ciò non equivale certamente ad affermare la indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale. Potrà infatti pervenirsi al risarcimento soltanto se l’attività illegittima della P.A. abbia determinato la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell’ordinamento”.

Le Sezioni Unite hanno affrontato il problema delle possibili conseguenze derivanti dalla nuova lettura della normativa sulla responsabilità aquiliana sul riparto delle giurisdizioni costituzionalmente garantito, precisando:

“a) che l’azione di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. nei confronti della P.A. per esercizio illegittimo della funzione pubblica bene è proposta davanti al giudice ordinario quale giudice al quale spetta, in linea di principio (secondo il previgente ordinamento), la competenza giurisdizionale a conoscere di questioni di diritto soggettivo, poiché tale natura esibisce il diritto al risarcimento del danno, che è diritto distinto dalla posizione giuridica soggettiva la cui lesione è fonte di danno ingiusto (che può avere, indifferentemente, natura di diritto soggettivo, di interesse legittimo, nelle sue varie configurazioni correlate alle diverse forme di protezione, o di interesse comunque rilevante per l’ordinamento);

b) che stabilire se la fattispecie di responsabilità della P.A. per atti o provvedimenti illegittimi dedotta in giudizio sia riconducibile nel paradigma dell’art. 2043 c.c., secondo la nuova lettura, costituisce questione di merito, atteso che l’eventuale incidenza della lesione su una posizione di interesse legittimo non deve essere valutata ai fini della giurisdizione, bensì ai fini della qualificazione del danno come ingiusto, in quanto lesivo di un interesse giuridicamente rilevante;

c) che una questione di giurisdizione è configurabile soltanto se sussiste, in relazione alla materia nella quale è sorta la fattispecie, una giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, estesa alla cognizione dei diritti patrimoniali consequenziali, e quindi delle questioni relative al risarcimento dei danni (…)”.

La sentenza si poneva in posizione fortemente innovativa.

In effetti, ammettendo l’azione diretta avanti al giudice ordinario per il risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, riportava il riparto delle giurisdizioni al criterio del petitum, ancorché la posizione immediatamente sottoposta all’esame del giudice ordinario fosse di interesse collegato all’esercizio del potere pubblico, al di là della prospettazione fattane dal privato.

La cognizione da parte del giudice ordinario di questa posizione non era, in realtà, meramente incidentale, bensì piena e centrale nel giudizio di risarcimento. E destava perplessità, nel merito, con riferimento agli stessi strumenti del giudizio risarcitorio, posto che la prova del nesso causale tra violazione della norma di azione, conseguente illegittimità dell’atto e lesione illecita del patrimonio veniva assunta senza una concreta verifica della spettanza del bene della vita una volta rimossa l’illegittimità dell’atto.

L’atto illegittimo può essere riadottato emendandolo dei vizi e in questo caso non può dirsi che l’atto illegittimo sia la causa del danno, se non sotto il profilo del ritardo.

Ma, in disparte il problema della giurisdizione, la sentenza aveva ammesso la risarcibilità dell’interesse legittimo ed aveva escluso la pregiudizialità dell’azione di annullamento rispetto all’azione risarcitoria e questa apertura avrebbe poi condizionato i successivi sviluppi, anche una volta ricongiunti i due strumenti davanti al giudice amministrativo. Restava, naturalmente, ferma la necessità della doppia azione ove il privato avesse perseguito non solo la tutela risarcitoria per equivalente, ma anche quella specifica attraverso la caducazione dell’atto illegittimo.

Anche dopo la sentenza n. 500 del 1999 della Corte di Cassazione, rimanevano comunque aperti aspetti delicati, quali:

a) il possibile contrasto tre la decisione civile e quella amministrativa, salvo ricorrere al meccanismo della sospensione ex articolo 295 c.p.c. che avrebbe però frustrato gli effetti dell’immediato accesso al giudice ordinario;

b) l’efficacia del giudicato amministrativo sul separato giudizio civile di danno.

 

5. L’esigenza di concentrazione delle tutele e la ragionevole durata del processo. L’espansione della giurisdizione esclusiva.

A questi fermenti normativi e giurisprudenziali si aggiungeva la necessità di tenere conto del sempre più insistente richiamo al rispetto del principio di ragionevole durata del processo, sancito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, rispetto al quale l’Italia continua a subire numerose condanne ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848([26]).

L’esigenza della concentrazione è stata perseguita dal citato decreto legislativo n. 80 del 1998 e dalla legge 21 luglio 2000, n. 205, che ampliano la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e completano lo spettro delle domande proponibili avanti al giudice amministrativo anche nel ricorso generale di annullamento([27]).

Innanzitutto la giurisdizione esclusiva tende ad assumere la connotazione di blocchi di materie, devolute complessivamente al giudice amministrativo.

L’articolo 33, come sostituito dall’articolo 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, stabilisce: “1. Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di cui alla legge 14 novembre 1995, n. 481. 2. Tali controversie sono, in particolare, quelle:

“a) concernenti la istituzione, modificazione o estinzione di soggetti gestori di pubblici servizi, ivi comprese le aziende speciali, le istituzioni o le società di capitali anche di trasformazione urbana;

“b) tra le amministrazioni pubbliche e i gestori comunque denominati di pubblici servizi;

“c) in materia di vigilanza e di controllo nei confronti di gestori dei pubblici servizi;

“d) aventi ad oggetto le procedure di affidamento di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, svolte da soggetti comunque tenuti alla applicazione delle norme comunitarie o della normativa nazionale o regionale;

“e) riguardanti le attività e le prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese nell’espletamento di pubblici servizi, ivi comprese quelle rese nell’àmbito del Servizio sanitario nazionale e della pubblica istruzione, con esclusione dei rapporti individuali di utenza con soggetti privati, delle controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o a cose e delle controversie in materia di invalidità”.

A norma dell’articolo 34: “1. Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati in materia urbanistica ed edilizia”.

I poteri del giudice amministrativo nell’ambito della giurisdizione esclusiva sono stabiliti dall’articolo 35: “Il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto. (…) Può stabilire i criteri in base ai quali l’amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell’avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine. (…) Può disporre l’assunzione dei mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, nonché della consulenza tecnica d’ufficio, esclusi l’interrogatorio formale e il giuramento. L’assunzione dei mezzi di prova e l’espletamento della consulenza tecnica d’ufficio sono disciplinati, ove occorra, nel regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, tenendo conto della specificità del processo amministrativo in relazione alle esigenze di celerità e concentrazione del giudizio”.

Nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità, il completamento delle azioni proponibili porta ad attrarre all’azione di annullamento anche le domande consequenziali e tra queste, prima di tutto, l’azione di risarcimento del danno.

Conseguente è la disposizione del comma 5, che sancisce: “Sono abrogati l’articolo 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142, e ogni altra disposizione che prevede la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti amministrativi”.

A tali fini, l’articolo 7 della legge n. 1034 del 1971, come modificato dalla legge n. 205 del 2000, recita: “Il tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”.

Si viene quindi ad affermare la giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere delle questioni consequenziali all’annullamento dell’atto illegittimo e, in particolare, del risarcimento del danno.

Unitamente all’ampliamento dei poteri di cognizione e di decisione, sono corrispondentemente ampliati i poteri istruttori.

Il quadro che ne deriva è quello di una risistemazione dei rapporti tra giurisdizioni, basata sull’obiettivo di concentrare tutte le pronunce relative al rapporto con la pubblica amministrazione avanti al giudice amministrativo ([28]).

 

6. La sentenza della Corte costituzionale del 2004.

La Corte costituzionale interveniva, però, a delimitare la possibilità per il legislatore di ampliare senza criteri precisi e rigorosi l’ambito di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Nel 2004, infatti, interveniva la sentenza della Corte costituzionale 5-6 luglio 2004, n. 204 ([29]) a chiarire che la materia dei pubblici servizi può essere oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo quando la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo ovvero quando si avvale della facoltà di adottare strumenti negoziali in sostituzione di tale potere.

La Corte, conseguentemente, dichiarava costituzionalmente illegittimo l’articolo 33, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera a, della legge 21 luglio 2000, n. 205, nella parte in cui prevedeva che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “tutte le controversie in materia di pubblici servizi” anziché le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore  ([30]).

La Corte giungeva a tale conclusione sulla base di un’interpretazione restrittiva dell’articolo 103, primo comma, della Costituzione, che “non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare “particolari materie” nelle quali “la tutela nei confronti della pubblica amministrazione” investe “anche” diritti soggettivi: un potere, quindi, del quale può dirsi, al negativo, che non è né assoluto né incondizionato, e del quale, in positivo, va detto che deve considerare la natura delle situazioni soggettive coinvolte, e non fondarsi esclusivamente sul dato, oggettivo, delle materie.

“Tale necessario collegamento delle “materie” assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive – e cioè con il parametro adottato dal Costituente come ordinario discrimine tra le giurisdizioni ordinaria ed amministrativa – è individuato nell’articolo 103 della Costituzione, laddove si statuisce che quelle materie devono essere “particolari” rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità: e cioè devono partecipare della loro medesima natura, che è contrassegnata della circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo.

“Il legislatore ordinario ben può ampliare l’area della giurisdizione esclusiva purché lo faccia con riguardo a materie (in tal senso, particolari) che, in assenza di tale previsione, contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità: con il che, da un lato, è escluso che la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo (il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice “della” pubblica amministrazione: con violazione degli artt. 25 e 102, secondo comma, Cost.) e, dall’altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo”.

La Corte aggiunge che “non soltanto (e non tanto) il riferimento ad una materia (i pubblici servizi) dai confini non compiutamente delimitati (se non in relazione all’ipotesi di concessione prevista fin dall’art. 5 della legge n. 1034 del 1971), quanto, e soprattutto, quello a “tutte le controversie” ricadenti in tale settore rende evidente che la “materia” così individuata prescinde del tutto dalla natura delle situazioni soggettive in essa coinvolte: sicché, inammissibilmente, la giurisdizione esclusiva si radica sul dato, puramente oggettivo, del normale coinvolgimento in tali controversie di quel generico pubblico interesse che è naturaliter presente nel settore dei pubblici servizi. Ma, in tal modo, viene a mancare il necessario rapporto di species ad genus che l’art. 103 Cost. esige allorché contempla, come “particolari”, rispetto a quelle nelle quali la pubblica amministrazione agisce quale autorità, le materie devolvibili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

“Tale conclusione è avvalorata dalla circostanza che il comma 2 della norma individua esemplificativamente (“in particolare”) controversie, quale quella incardinata davanti al giudice a quo, nelle quali può essere del tutto assente ogni profilo riconducibile alla pubblica amministrazione-autorità: e certamente le ipotesi specificamente censurate (lettere b ed e) sono tali da non resistere al vaglio di costituzionalità in quanto non soltanto (come le altre contemplate dal comma 2) travolte dalla censura che investe la previsione di “tutte le controversie in materia di pubblici servizi”, ma anche perché, ex se, integrano ipotesi nelle quali tali controversie non vedono, normalmente, coinvolta la pubblica amministrazione-autorità”.

Analoghi rilievi vengono mossi all’articolo 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, come modificato dall’articolo 7, comma 1, lettera b), della legge n. 205 del 2000, la cui formulazione, secondo la Corte, “si pone in contrasto con la Costituzione nella parte in cui, comprendendo nella giurisdizione esclusiva – oltre “gli atti e i provvedimenti” attraverso i quali le pubbliche amministrazioni (direttamente ovvero attraverso “soggetti alle stesse equiparati”) svolgono le loro funzioni pubblicistiche in materia urbanistica ed edilizia – anche “i comportamenti”, la estende a controversie nelle quali la pubblica amministrazione non esercita – nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici – alcun pubblico potere.

“Poiché, mutatis mutandis, a tale previsione dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 80 del 1998 si attagliano le medesime considerazioni che si sono esposte (sub 3.4.2.) a proposito dell’art. 33, comma 1, deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 80 del 1998, come sostituito dall’art. 7, comma 1, lettera b), della legge n. 205 del 2000, nella parte in cui devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto «gli atti, i provvedimenti e i comportamenti» in luogo che «gli atti e i provvedimenti» delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati.”

Il giudice delle leggi precisa, peraltro, che “la dichiarazione di incostituzionalità non investe in alcun modo – nonostante i rimettenti ne adducano il disposto a sostegno delle loro censure – l’art. 7 della legge n. 205 del 2000, nella parte in cui (lettera c) sostituisce l’art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998: il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova “materia” attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione.

“L’attribuzione di tale potere non soltanto appare conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio di Stato (sub 3), ma anche, e soprattutto, essa affonda le sue radici nella previsione dell’art. 24 Cost., il quale, garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri; e certamente il superamento della regola (avvenuto, peraltro, sovente in via pretoria nelle ipotesi olim di giurisdizione esclusiva), che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l’eventuale risarcimento del danno (regola alla quale era ispirato anche l’art. 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142, che pure era di derivazione comunitaria), costituisce null’altro che attuazione del precetto di cui all’art. 24 Cost.”.

La pronuncia, com’è evidente, ricopre un ruolo fondamentale nella riaffermazione del riparto costituzionale delle giurisdizioni, delimitando, in particolare, la discrezionalità del legislatore ordinario nell’estensione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in ragione del carattere di specialità del potere giurisdizionale da quest’ultimo esercitato.

 

7. La crescente difficoltà d’individuazione della giurisdizione. Gli effetti del principio della “perpetuatio iurisdictionis”.

Le novità legislative del 1998 – 2000 e la parziale declaratoria d’incostituzionalità degli articoli 33 e 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 hanno finito con l’accentuare le difficoltà d’individuazione del giudice fornito di giurisdizione, evidenziando il rischio della frustrazione di azioni introdotte davanti ad un giudice non più dotato di giurisdizione.

Secondo la prevalente giurisprudenza, infatti, in caso di sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità di una norma in materia di giurisdizione, non opera la perpetuatio della giurisdizione individuata sulla base della norma poi dichiarata incostituzionale.

Osserva la Corte nella sentenza 12 marzo 2007, n. 77 ([31]): “Sollevando la questione in esame, il giudice rimettente si fa interprete del diffuso disagio, per i gravi (e, non di rado, irreparabili) inconvenienti provocati da una disciplina che, in sostanza, parte dal presupposto che l’atto introduttivo del giudizio rivolto ad un giudice privo di giurisdizione sia affetto da un vizio che lo rende radicalmente inidoneo a produrre gli effetti, sia sostanziali che processuali, che la legge collega ad un atto introduttivo che violi le regole sul riparto di competenza.

“Tale disagio è accresciuto, in primo luogo, dalla circostanza che una così rigorosa disciplina concerne un vizio dell’atto introduttivo che scaturisce da una estremamente articolata e complessa regolamentazione del riparto di giurisdizione: sicché non solo è tutt’altro che agevole il compito della parte attrice, ma altrettanto disagevole è quello del giudice il cui eventuale errore, tuttavia, ricade interamente sulla parte (si pensi al caso del giudice che erroneamente declini la propria giurisdizione con nuova proposizione della domanda al giudice indicato come munito di giurisdizione, il quale, a sua volta, la declini: la domanda riproposta al primo giudice non potrebbe “ancorarsi” alla prima e far risalire ad essa gli effetti sostanziali e processuali).

“Questa Corte è consapevole che il fenomeno appena illustrato ha assunto proporzioni ancor più vistose a seguito di una propria recente pronuncia dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di talune norme che, secondo il criterio dei «blocchi di materie», ripartivano la giurisdizione tra autorità giudiziaria ordinaria e giudice amministrativo: l’inapplicabilità, secondo la giurisprudenza assolutamente dominante, all’ipotesi di sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale del principio della perpetuatio iurisdictionis codificato nell’art. 5 cod. proc. civ. ha certamente acuito la diffusa sensazione della sostanziale ingiustizia della disciplina vigente in quanto, nonostante la domanda fosse stata rivolta al giudice munito di giurisdizione secondo la legge vigente al momento della sua proposizione, la sopravvenuta carenza di giurisdizione ne impediva o pregiudicava la tutela giurisdizionale.

“Peraltro, l’orientamento del Consiglio di Stato, di gran lunga prevalente, fondato sul potere di rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione anche quando, essendosi su di essa esplicitamente pronunciato il TAR, contro tale capo della pronuncia non sia stata proposta impugnazione, fa sì (ed ha fatto sì in numerosi casi interessati dalla citata sentenza di questa Corte) che il giudizio debba essere proposto ex novo davanti al giudice ordinario perfino dopo che sulla sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo si sia formato il giudicato”.

Si avvertiva, quindi, anche per tale ragione la necessità di un meccanismo processuale per consentire la migrazione di un giudizio, e la conseguente conservazione degli effetti della domanda, instaurato innanzi al giudice amministrativo, ma attratto alla giurisdizione ordinaria a seguito di tale pronuncia della Corte Costituzionale n. 204 del 2004.

 

8. La “svolta del 2007”: la sentenza 22 febbraio 2007, n. 4109, Corte di cassazione SS.UU.CC. e la sentenza 12 marzo 2007, n. 77, della Corte costituzionale: la translatio iudicii come conseguenza dell’evoluzione dell’ordinamento.

La situazione era ormai matura per un cambiamento di prospettiva.

A questa esigenza davano risposta sia la Corte di cassazione sia la Corte costituzionale, secondo i rispettivi strumenti a disposizione ([32]).

8.1.- La Corte di cassazione ([33]) era stata investita dalla questione di giurisdizione, “per violazione attinente ai limiti esterni della potestas decidendi”……[34], a seguito di una sentenza del TAR – che aveva ritenuto la giurisdizione del giudice amministrativo su una controversia tra concessionario e amministrazione concedente – poi cassata senza rinvio dal Consiglio di Stato, che aveva – ex officio e senza specifico motivo dell’appellante – esaminato la questione della giurisdizione, negandola.

In questo contesto, la Corte di cassazione non si limita a constatare nella decisione del Consiglio di Stato il vizio denunciato, consistente nell’intervenuta formazione del giudicato interno sulla giurisdizione, ma statuiva anche che la cassazione era disposta con rinvio al medesimo Consiglio di Stato per un nuovo esame, evidentemente rivolto alla decisione del merito della lite.

La Corte di cassazione evidenzia che con questo rinvio la propria pronuncia si pone in contrasto con l’indirizzo tradizionale della giurisprudenza e della dottrina, che ammettevano la translatio iudicii – con gli effetti che vi si ricollegano della salvezza degli atti compiuti davanti al giudice inizialmente adito – solo nel caso in cui il giudice fornito di giurisdizione è il giudice ordinario, non quando è il giudice amministrativo o speciale. Indirizzo, questo, tradizionalmente basato sugli articoli 50 e 367 c.p.c. Il primo, in quanto prevede la translatio solo in caso di incompetenza e non anche di difetto di giurisdizione. Il secondo, in quanto prevede la riassunzione del giudizio, a seguito del regolamento di giurisdizione, solo quando la Corte di cassazione dichiari la giurisdizione del giudice ordinario ([35]).

Richiamate le ragioni che avevano indotto più recentemente, da un lato, la dottrina e l’iniziativa legislativa a rivedere tali concetti, in vista dell’estensione della translatio iudicii anche al passaggio dal giudice ordinario al giudice amministrativo o speciale e viceversa, e, dall’altro, la giurisprudenza di merito a sollevare la questione di costituzionalità ([36]), la Corte enuncia gli argomenti che la inducevano, nella sua funzione di regolatrice dei conflitti di giurisdizione, a considerare ormai introdotta, sulla base di una lettura costituzionalmente orientata dell’ordinamento vigente, la translatio iudicii dal giudice speciale al giudice ordinario e viceversa.

La prima considerazione che svolge la Cassazione è così articolata: se è vero che manca per la giurisdizione la previsione legislativa che sussiste invece per la competenza (articoli 44, 45 e 50 c.p.c.), è anche vero che nell’ordinamento non si rinviene un divieto espresso di translatio iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale.

La Corte, di seguito, procede ad esaminare il principio vigente in tema di translatio e lo rinviene nell’articolo 382, terzo comma, c.p.c., disposizione in forza della quale vi è cassazione senza rinvio solo “se (la Corte) riconosce che il giudice del quale si impugna il provvedimento e ogni altro giudice difettano di giurisdizione”. In altri termini la Corte cassa senza rinvio solo in caso di difetto assoluto di giurisdizione e di conseguente improponibilità assoluta della domanda davanti a qualunque giudice: “alla cassazione della sentenza impugnata non può che seguire la pronuncia di rinvio davanti al giudice speciale, perché altrimenti si verificherebbe l’inaccettabile conseguenza di un processo, che si debba concludere con una sentenza che confermi soltanto la giurisdizione del giudice adito senza decidere sull’esistenza o meno della pretesa”.

In senso contrario, aggiunge la Corte, non possono invocarsi né l’articolo 386 né l’articolo 367, comma 2, c.p.c.

La prima disposizione, in effetti, stabilisce che “la decisione sulla giurisdizione è determinata dall’oggetto della domanda e, quando prosegue il giudizio, non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda”. Prescinde, dunque, dalla circostanza che la prosecuzione debba avvenire davanti al giudice ordinario o a quello speciale.

La seconda disposizione, nella parte in cui statuisce che “se la corte di cassazione dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, le parti devono riassumere il processo entro il termine perentorio di sei mesi dalla comunicazione della sentenza”, non comporta affatto la delimitazione del rinvio al solo caso della prosecuzione davanti al giudice speciale. Quella norma, infatti, era formulata nella cornice del codice del 1940, nella quale il regolamento preventivo era esperibile solo davanti al giudice ordinario. Ora invece esso è esperibile anche davanti al giudice amministrativo e al giudice tributario.

Osserva quindi la Corte: “…… sia nel caso di ricorso ordinario ex art. 360 c.p.c., n. 1 – previsto per il solo giudizio ordinario e poi esteso ex art. 111 Cost. a tutte le decisioni (…) – sia nel caso di regolamento preventivo di giurisdizione proponibile innanzi al giudice ordinario, ma anche innanzi al giudice amministrativo, contabile o tributario, deve poter operare la transito iudicii. In tal modo si consente al processo, iniziato erroneamente davanti ad un giudice che non ha la giurisdizione indicata, di poter continuare – così come è iniziata – davanti al giudice effettivamente dotato di giurisdizione, onde dar luogo ad una pronuncia di merito che conclude la controversia processuale, comunque iniziata, realizzando in modo più sollecito ed efficiente quel servizio giustizia, costituzionalmente rilevante”.

Infine, aggiunge la Corte di cassazione, “per ragioni di completezza sistematica, (…) la trasmigrabilità della causa dal giudice ordinario al giudice speciale, e viceversa, non richiede necessariamente la pronuncia di queste Sezioni Unite sulla questione di giurisdizione, ma è resa possibile anche nel caso di sentenza del giudice di merito, che abbia declinato la giurisdizione”.

Da ciò la conclusione che “(…) non è necessario sollecitare sul punto l’intervento del Giudice delle leggi (cfr. T.A.R. Liguria 21.11.2005, n. 148), potendosi a tale conclusione pervenire ancora in sede interpretativa”. Con la sola differenza, in questo caso, che “la sentenza del giudice di merito – sia esso ordinario che amministrativo, tributario o contabile – declinatoria della giurisdizione, a differenza di quella delle Sezioni Unite della Cassazione, non imponga, al giudice del quale è stata affermata la giurisdizione, di adeguarsi a tale pronuncia, onde il giudice ad quem, innanzi al quale la causa fosse riassunta, potrebbe a sua volta dichiarare il proprio difetto di giurisdizione”. Salvo che “in tal caso, alle parti, per la soluzione del conflitto negativo di giurisdizione, è dato il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 362 c.p.c., comma 2 (…)”.

E ancora “(…) l’apparente antinomia della suddetta conclusione con la disposizione della L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 34, comma 1, laddove si prevede l’annullamento senza rinvio della decisione del tribunale amministrativo regionale da parte del Consiglio di Stato quando l’organo di secondo grado riconosca il difetto di giurisdizione del giudice di primo grado, si compone nel rilievo che il difetto di giurisdizione considerato dalla norma concerne anch’esso le sole ipotesi in cui non è configurabile una prosecuzione del processo né innanzi al giudice speciale, né innanzi al giudice ordinario, in parallelo alla disposizione dell’art. 382 c.p.c., comma 3”.

8.2.- Sempre nel 2007 è intervenuta, sulla questione sollevata dalla citata decisione del TAR Liguria, la Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, recante l’Istituzione dei tribunali amministrativi regionali, “nella parte in cui non prevede che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione”, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione.

La Corte costituzionale, prendendo espressamente spunto dalla sentenza appena citata della Corte di cassazione, muove da un diverso presupposto. Contesta infatti l’assunto della Corte di cassazione, secondo cui manca nell’ordinamento “un espresso divieto della translatio iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale” che renda necessaria la soluzione attraverso la pronuncia d’incostituzionalità. E contesta altresì che la soluzione sia implicita nel sistema anche nel caso di passaggio diretto da un giudice all’altro, in forza della sentenza che declina la giurisdizionale indicando il giudice ritenuto provvisto del potere, sul presupposto – assunto dalla Corte di cassazione – che v’è sempre la possibilità di risolvere l’eventuale conflitto negativo, attraverso il ricorso ex articolo 362, comma secondo, c.p.c.

Quanto al primo profilo, l’opinione della Corte è che “l’espressa previsione della translatio con esplicito ed esclusivo riferimento alla «competenza» (…) non altro può significare se non divieto di applicare alla giurisdizione quanto previsto, esplicitamente ed esclusivamente, per la competenza; il che avrebbe reso superfluo, nell’asciutta essenzialità delle norme codicistiche, l’«espresso divieto» di applicare alla giurisdizione le molte norme esplicitamente dedicate (sia nelle rubriche che nel testo) alla sola competenza”.

Quanto al secondo profillo, ad avviso della Corte “(…) la funzione di «rendere praticabile la translatio», con la conservazione degli effetti della domanda proposta al giudice (che risulta essere) privo di giurisdizione, non può ritenersi affidata ad un ricorso proponibile «in ogni tempo» (e, quindi, anche anni dopo il manifestarsi del conflitto)”.

Il punto centrale del problema è, però, un altro: “la trasmigrabilità del processo – osserva la Corte costituzionale – è strumento necessario, ma non sufficiente perché il giudice ad quem possa giudicare della domanda dinanzi a lui riassunta come se essa fosse stata proposta davanti a lui nel momento in cui lo fu al giudice privo di giurisdizione”. Insomma il problema non è la riassunzione ma la conservazione degli effetti della domanda o del ricorso proposti al giudice carente di giurisdizione.

Da ciò la statuizione secondo cui “il principio della incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini diversi – comprensibile in altri momenti storici quale retaggio della concezione cosiddetta patrimoniale del potere giurisdizionale e quale frutto della progressiva vanificazione dell’aspirazione del neo-costituito Stato unitario (legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo) all’unità della giurisdizione, determinata dall’emergere di organi che si conquistavano competenze giurisdizionali – è certamente incompatibile, nel momento attuale, con fondamentali valori costituzionali.

“Se è vero, infatti, che la Carta costituzionale ha recepito, quanto alla pluralità dei giudici, la situazione all’epoca esistente, è anche vero che la medesima Carta ha, fin dalle origini, assegnato con l’art. 24 (ribadendolo con l’art. 111) all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi. Questa essendo la essenziale ragion d’essere dei giudici, ordinari e speciali, la loro pluralità non può risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale: ciò che indubbiamente avviene quando la disciplina dei loro rapporti – per giunta innervantesi su un riparto delle loro competenze complesso ed articolato – è tale per cui l’erronea individuazione del giudice munito di giurisdizione (o l’errore del giudice in tema di giurisdizione) può risolversi in un pregiudizio irreparabile della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda di tutela giurisdizionale”.

“Una disciplina siffatta, in quanto potenzialmente lesiva del diritto alla tutela giurisdizionale e comunque tale da incidere sulla sua effettività, è incompatibile con un principio fondamentale dell’ordinamento, il quale riconosce bensì la esistenza di una pluralità di giudici, ma la riconosce affinché venga assicurata, sulla base di distinte competenze, una più adeguata risposta alla domanda di giustizia, e non già affinché sia compromessa la possibilità stessa che a tale domanda venga data risposta.

“Al medesimo principio gli artt. 24 e 111 Cost. impongono che si ispiri la disciplina dei rapporti tra giudici appartenenti ad ordini diversi allorché una causa, instaurata presso un giudice, debba essere decisa, a seguito di declinatoria della giurisdizione, da altro giudice”.

Da ciò la dichiarazione d’illegittimità costituzionale della norma censurata nella parte in cui non prevede la conservazione degli effetti della domanda nel processo proseguito, a seguito di declinatoria di giurisdizione, davanti al giudice munito di giurisdizione, ispirandosi essa, viceversa, al principio per cui la declinatoria della giurisdizione comporta l’esigenza di instaurare ex novo il giudizio senza che gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda originariamente proposta si conservino nel nuovo giudizio; “principio questo che, non formulato espressamente in una o più disposizioni di legge ma presupposto dall’intero sistema dei rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali e tra i giudici speciali, deve essere espunto, come tale, dall’ordinamento”.

La Corte costituzionale conclude rinviando al necessario intervento del legislatore, “con l’urgenza richiesta dall’esigenza di colmare una lacuna dell’ordinamento processuale, verrà emanata, sarà vincolata solo nel senso che essa dovrà dare attuazione al principio della conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione nel giudizio ritualmente riattivato – a seguito di declinatoria di giurisdizione – davanti al giudice che ne è munito”.

Con l’essenziale chiarimento, però, che “la conservazione degli effetti prodotti dalla domanda originaria discende non già da una dichiarazione del giudice che declina la propria giurisdizione, ma direttamente dall’ordinamento, interpretato alla luce della Costituzione; ed anzi deve escludersi che la decisione sulla giurisdizione, da qualsiasi giudice emessa, possa interferire con il merito (al quale appartengono anche gli effetti della domanda) demandato al giudice munito di giurisdizione”.

La sentenza della Corte costituzionale è, dunque, immediatamente efficace sul punto dell’espunzione dal nostro ordinamento del principio della mancata conservazione degli effetti del giudizio instaurato davanti al giudice carente di giurisdizione, mentre resta al legislatore il compito di completare il sistema.

In particolare il legislatore è vincolato dall’esigenza di disporre che ogni giudice, nel declinare la propria giurisdizione, deve indicare quello che, a suo avviso, ne è munito. Può, invece, discrezionalmente stabilire: a) il meccanismo della riassunzione (forma dell’atto, termine di decadenza, modalità di notifica e/o di deposito, eventuale integrazione del contributo unificato, ecc.); b) se mantenere in vita il principio per cui ogni giudice è giudice della propria giurisdizione ovvero adottare l’opposto principio seguito dal codice di procedura civile (articolo 44) per la competenza.

 

9. L’intervento legislativo: la legge 18 giugno 2009, n. 69: l’adeguamento alla dichiarazione d’incostituzionalità e la delega per il riassetto del processo amministrativo.

9.1– Alla sentenza della Corte costituzionale ha fatto seguito la legge 18 giugno 2009, n. 69, recante “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile” ([37]). L’articolo 59 (Decisione delle questioni di giurisdizione) così dispone:

“1.  Il giudice che, in materia civile, amministrativa, contabile, tributaria o di giudici speciali, dichiara il proprio difetto di giurisdizione indica altresì, se esistente, il giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione. La pronuncia sulla giurisdizione resa dalle sezioni unite della Corte di cassazione è vincolante per ogni giudice e per le parti anche in altro processo.

“2.  Se, entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia di cui al comma 1, la domanda è riproposta al giudice ivi indicato, nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. Ai fini del presente comma la domanda si ripropone con le modalità e secondo le forme previste per il giudizio davanti al giudice adito in relazione al rito applicabile.

“3.  Se sulla questione di giurisdizione non si sono già pronunciate, nel processo, le sezioni unite della Corte di cassazione, il giudice davanti al quale la causa è riassunta può sollevare d’ufficio, con ordinanza, tale questione davanti alle medesime sezioni unite della Corte di cassazione, fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito. Restano ferme le disposizioni sul regolamento preventivo di giurisdizione.

“4.  L’inosservanza dei termini fissati ai sensi del presente articolo per la riassunzione o per la prosecuzione del giudizio comporta l’estinzione del processo, che è dichiarata anche d’ufficio alla prima udienza, e impedisce la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda.

“5.  In ogni caso di riproposizione della domanda davanti al giudice di cui al comma 1, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomenti di prova”.

È bene premettere che il legislatore ha correttamente colmato il vuoto legislativo derivante dalla pronuncia della Corte costituzionale. In particolare la legge sopravvenuta ha chiarito, nel senso ormai emergente dall’evoluzione dell’ordinamento, che il giudice che dichiara il proprio difetto di giurisdizione deve contestualmente individuare, se sussistente, il giudice nazionale che ne è fornito.

Conseguentemente, fuori dai casi di difetto assoluto di giurisdizione e di improponibilità della domanda, il giudice adito, sia esso un giudice ordinario sia esso un giudice speciale, sia un giudice di merito o di legittimità, deve pronunciare sulla giurisdizione non solo per negare la propria se insussistente ma anche per affermare il giudice che ne è fornito.

Se riassunto tempestivamente il giudizio, si avranno due effetti fondamentali: il radicamento della giurisdizione presso il giudice del rinvio e la salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta avanti al primo giudice dichiaratosi privo di giurisdizione.

9.2– Sulla pronuncia inerente esclusivamente alla giurisdizione, peraltro, non si forma il giudicato su tale presupposto processuale che è, quindi, contestabile dal giudice individuato dalla pronuncia stessa, a meno che non si tratti di pronuncia della Corte di cassazione, che assume il ruolo di corte regolatrice della giurisdizione, chiamata a “statuire” sulla stessa (articolo 59, comma 1). In altri termini il legislatore ha mantenuto il principio secondo cui ogni giudice adito è, salvo il rinvio dalla Corte di cassazione, giudice della propria giurisdizione.

Ma il giudice adito a seguito del rinvio del giudice dichiaratosi privo di giurisdizione non può sottrarsi all’individuazione così compiuta se non sollevando d’ufficio, ed in limine litis (fino alla prima udienza di trattazione del merito), conflitto negativo davanti alle Sezioni Unite della Corte di cassazione (articolo 59, comma 3).

9.3- Oltre all’effetto vincolante sulla giurisdizione del giudice del rinvio nei sensi sopra richiamati, la riassunzione produce la salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta a suo tempo avanti al giudice privo di giurisdizione.

È questo l’effetto obbligato che la Corte costituzionale direttamente ricollega alla pronuncia d’incostituzionalità sopra richiamata. La parte attrice, quindi, a seguito della tempestiva riassunzione si ritroverà nella stessa situazione in cui si sarebbe trovata se avesse proposto la domanda iniziale al “giusto” giudice. È con riferimento a quell’iniziale accesso al giudice, sia pure carente di giurisdizione, che si valuterà la tempestività del rimedio esperito e la sua idoneità, in termini di specificità della domanda, a dare corso al giudizio di merito. A quella stessa data si stabiliranno le eventuali preclusioni già formatesi, che non saranno sanate dalla riassunzione ancorché tempestiva davanti al giudice del rinvio (articolo 59, comma 3).

9.4– Quanto alla modalità della riassunzione, la scelta del legislatore è coerente col sistema processuale.

La domanda si ripropone davanti al giudice designato con le modalità e secondo le forme previste per il giudizio davanti al medesimo giudice in relazione al rito applicabile davanti a questo(articolo 59, comma 2).

La riassunzione davanti al giudice amministrativo sarà effettuata con la forma del ricorso, notificato all’amministrazione emanante e ad almeno uno dei controinteressati. La riassunzione davanti al giudice ordinario sarà effettuata con citazione notificata alla parte che ha la legittimazione passiva.

9.5– Quanto al termine di riassunzione, esso è fissato in tre mesi dal passaggio in giudicato (formale) della sentenza che dichiara il difetto di giurisdizione del giudice precedentemente adito. E si tratta di termine perentorio.

L’inosservanza del termine di riassunzione o di prosecuzione del giudizio comporta l’estinzione del processo, che è dichiarata anche d’ufficio alla prima udienza, e impedisce la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda.

9.6– Quanto al regime degli atti compiuti dal giudice dichiaratosi poi privo di giurisdizione, esso prevede la conservazione degli effetti sia pure con una forma di adattamento al rito del giudice che prosegue il giudizio.

In particolare, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomenti di prova (articolo 59, comma 5).

La disposizione è corretta traduzione della diversità dei riti e degli interessi che ne sono oggetto. La conservazione degli effetti degli atti compiuti dal giudice “incompetente” non può eccedere la tipicità degli atti del processo del giudice ad quem. Così, se presso quest’ultimo non è ammessa la prova testimoniale (ad esempio davanti al giudice amministrativo in sede di giurisdizione generale di legittimità o davanti al giudice tributario), non potrà la salvezza degli effetti produrre un risultato più favorevole di quanto si sarebbe realizzato con l’individuazione corretta del giudice fin dall’inizio.

Coerentemente, dunque, il legislatore prevede che sia possibile, in caso di limitazione delle prove esperibili davanti a sé, trarre dall’istruttoria compiuta davanti all’altro giudice un argomento di prova.

9.5- L’articolo 44 della legge 18-6-2009, n. 69, contiene, altresì, delega al Governo per l’adozione, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge di delga, di uno o più decreti legislativi “per il riassetto del processo avanti ai tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato, al fine di adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di principi generali e di assicurare la concentrazione delle tutele”.

Alcuni dei criteri di delega si riferiscono specificamente alla materia della giurisdizione.

In particolare, i decreti legislativi, oltre che ai principi e criteri direttivi di cui all’articolo 20, comma 3, della legge 15 marzo 1997, n. 59, in quanto applicabili, si dovranno attenere ai seguenti principi e criteri direttivi:

a) assicurare la snellezza, concentrazione ed effettività della tutela, anche al fine di garantire la ragionevole durata del processo, …;

b) disciplinare le azioni e le funzioni del giudice:

1) riordinando le norme vigenti sulla giurisdizione del giudice amministrativo, anche rispetto alle altre giurisdizioni;

3) disciplinando, ed eventualmente riducendo, i termini di decadenza o prescrizione delle azioni esperibili e la tipologia dei provvedimenti del giudice;

4)  prevedendo le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa;

……

e) razionalizzare e unificare la disciplina della riassunzione del processo e dei relativi termini, anche a seguito di sentenze di altri ordini giurisdizionali, nonché di sentenze dei tribunali amministrativi regionali o del Consiglio di Stato che dichiarano l’incompetenza funzionale;

……”

Ci si deve, dunque, attendere che, nell’esercizio della delega, siano recepiti, quanto alla giurisdizione, i principi fissati dalla Corte costituzionale e dalla Corte di cassazione nelle richiamate pronunce, specie per quanto attiene alla visione funzionale della giurisdizione, come mezzo per individuare nel termine più rapido possibile il giudice che deve giungere alla decisione di merito.

 

10. L’affievolimento del valore della giurisdizione. Dalla giurisdizione nei confronti dello straniero, al giudicato implicito sulla giurisdizione, alla translatio iudicii.

10.1– Si è detto dell’orientamento della Corte Costituzionale in riferimento alla diversità delle giurisdizioni ed al suo superamento e di come, nel solco dell’idea di restituire effettività alla tutela e di privilegiare la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda, si collocano le recenti pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione a Sezioni Unite in materia di translatio iudicii con le quali si è andato progressivamente evolvendo il significato stesso di giurisdizione[38].

L’affievolimento del valore in sé della giurisdizione si è avuta nel diritto positivo con riferimento alla posizione dello straniero. A norma dell’articolo 4 della legge 31 maggio 1995, n. 218, costituisce elemento di collegamento col nostro ordinamento, idoneo a determinare l’insorgenza della giurisdizione italiana, la volontà delle parti o addirittura la semplice mancata eccezione del convenuto nel primo atto difensivo.

La Corte di cassazione aveva, del resto, proprio con riferimento alla giurisdizione nei confronti dello straniero, ritenuto la salvezza degli effetti della domanda proposta nei termini ma a giudice privo di giurisdizione[39].

Osserva la Corte: “Basta ricordare l’abrogazione dell’art. 2 e.p.c.(in tema di inderogabilità delle norme sulla giurisdi-zione), avvenuta in forza dell’art. 73 della legge31/5/1995, n. 218. La stessa legge ha anche abrogato gli artt. 3 e 37 secondo comma, c.p.c. (art. 73) ed ha introdotto il principio secondo cui la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano può dipendere anche dall’accordo delle parti o dal comportamento del convenuto, che comparendo nel processo, non sollevi alcuna obiezione al riguardo (art. 4). Una sorta di”portabilità” della giurisdizione che ha dato luogo al fenomeno del cd. “forum shopping” (per cui, in taluni casi, colui che debba far valere una pretesa in sede giudiziaria, può scegliere di rivolgersi al tribunale che applica la legge a lui più favorevole) . Il fenomeno, che testimonia della evoluzione in senso dispositivo della giurisdizione intesa come oggetto del processo, ha assunto notevoli dimensioni, al punto che il legislatore comunitario è intervenuto più volte per arginarlo e per fissare criteri di collegamento per la individuazione della legge da applicarsi di volta in volta, nell’ambito del progetto volto a creare uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia (v. regolamento 44/2001, che disciplina la competenza internazionale dei giudici e il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni emesse in un altro Stato membro, regolamento 864/2007/CE sulle norme applicabili alle obbligazioni extracontrattuali di tipo civile e commerciale, e da ultimo il regolamento 593/2008, in tema di obbligazioni contrattuali transfrontaliere). Il fenomeno del forum shopping testimonia, dunque, il superamento del monopolio statale della disciplina della giurisdizione e delle rigidità connesse, che appaiono incompatibili con l’avvento della “concorrenza internazionale e sopranazionale degli ordinamenti giuridici”. Questa premia la bontà e la celerità del servizio giustizia (attraendo investimenti e shoppers), quando venga affrancata dai viziosi meccanismi processuali, in cui talora resta intrappolata la giurisdizione (per riportare il pensiero di una recente dottrina). I regolamenti comunitari, lungi dal voler ripristinare i monopoli statali della giurisdizione sono stati adottati per esigenze di certezza del diritto e per evitare “abusi di giurisdizione”.Per meglio testimoniare questa perdita di anelasticità ed impermeabilità della giurisdizione, giova ricordare ancora, sul piano interno, che in forza dell’art. 6 della legge 21/7/2000, n. 205, le controversie sui diritti devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo si possono deferire ad arbitri e, attraverso l’impugnazione del lodo, possono approdare dinanzi al giudice ordinario”.

10.2– Un’ulteriore conferma dell’affievolimento della diversità delle giurisdizioni e della propensione ad una forma di unicità della giurisdizione si ha nella recente pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite 9 ottobre 2008, n. 24883 ([40]), in materia di giudicato implicito, con la quale si è affermato che la questione di giurisdizione non può più essere sollevata, né dalle parti, né ex officio, quando nei precedenti gradi di giudizio non sia stato posto il problema in modo esplicito e, di conseguenza, sia proseguito l’iter giudiziario innanzi al giudice adito.

Tale orientamento si fonda su un’interpretazione restrittiva dell’articolo 37, comma 1, c.p.c., in forza del quale il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo[41].

La Corte muove, infatti, proprio dalla constatazione che le “affermazioni della Corte costituzionale, anticipate dalle Sezioni Unite nella sentenza del 22.2.2007 n. 4109, seppur riferite al diverso tema della “translatio iudicii”, sembrano idonee a giustificare un’interpretazione adeguatrice dell’art. 37 c.p.c., comma 1, tenuto conto che l’ordine costituzionale (dei criteri di riparto) delle giurisdizioni non è affatto messo in discussione da una interpretazione della predetta norma che impedisca una regressione del processo allo stato iniziale, con conseguente vanificazione di due pronunce di merito e allontanamento sine die di una valida pronuncia sul merito. Come acutamente ha rilevato il Consiglio di Stato (Sez. 4^, 2008/1059), l’affermazione del principio della translatio iudicii davanti a un giudice di un diverso ordine, ha fortemente assimilato il difetto di giurisdizione a quello di competenza”.

Tanto più se si ha riguardo alla circostanza che, come la Corte Costituzionale evidenziava nella pronuncia del 2007, all’epoca della stesura del Codice di procedura civile del ’42, le norme sulla giurisdizione erano sentite come norme di ordine pubblico. Infatti, “il sistema originario consentiva la massima espansione semantica all’art. 37 c.p.c., comma 1, essendo inserito in un contesto caratterizzato dal principio di inderogabilità delle regole sulla potestas iudicandi, sia con riferimento alla giurisdizione che con riferimento alla competenza per materia, per valore e territoriale inderogabile (quella cioè ripartita sulla base di criteri di ordine pubblico)” (Corte Cost., 22 febbraio 2007, n. 77).

Oggi, in ragione dell’evoluzione storica di cui si è detto, il punto di partenza è evidentemente mutato.

Il fondamento normativo del giudicato implicito viene rinvenuto dalla Corte di Cassazione nell’articolo 276, comma 2, c.p.c., nel quale si prevede che “il Collegio decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d’ufficio, e quindi il merito della causa”: di talché, l’emanazione di una decisione nel merito ingloba ogni questione inerente alla giurisdizione, che si ha per risolta positivamente anche ove non espressamente affrontata, con la conseguenza che la mancata impugnazione della sentenza implica una acquiescenza sulla questione relativa alla giurisdizione e determina, sul punto, la formazione di un giudicato implicito, intangibile in Cassazione al pari di quello esplicito[42].

La Corte passa poi alla critica della dottrina più risalente: “La dottrina meno recente riteneva che in materia di giurisdizione non sussistesse un ordine logico precostituito, posto che gli elementi della fattispecie influiscono sulla identificazione del giudice competente. Quella stessa dottrina riteneva che il giudicato sulla giurisdizione si formava soltanto se sul punto fosse stata sollevata una autonoma questione pregiudiziale, oggetto di specifico contraddittorio tra le parti (pregiudiziale tecnica e non soltanto logica). La tesi era che, se la questione non veniva espressamente sollevata, la stessa non poteva considerarsi risolta ……

“Di regola, però, se nessuno pone la questione di giurisdizione e il giudice pronuncia la sentenza di merito, significa che la potestas iudicandi è pacifica,nessuno la contesta e perciò non merita un apposito dibattito. La tesi secondo la quale soltanto in caso di dubbio espresso possa riconoscersi la forza certificatrice del giudicato appare illogica, perché esclude tale vis proprio quando la questione non presenta alcun margine di incertezza e viene decisa de plano. …… oltre ad offrire il fianco alla incongruenza logica sopra evidenziata (per cui soltanto la certezza che sia figlia del dubbio merita il sigillo del giudicato e non invece le “certezze” di cui nessuno abbia mai dubitato) si pone anche in evidente contrasto con le regole dell’economia processuale, perché ciascuna parte,quand’anche nessuno dubitasse della potestas ìudicandi del giudice adito, se volesse proseguire il giudizio senza il rischio di imprevedibili regressioni successive, sarebbe costretta a provocare un contraddittorio sul punto. ……

“In realtà, non bisogna confondere la successione cronologica delle attività di cognizione del giudice, con il quadro logico della decisione complessiva adot-tata in esito alle attività cognitive, all’interno del quale si collocano i passaggi impliciti o espliciti che portano alla decisione finale (una sorta di stratifica-zione da assestamento).

“Questi passaggi, che nel giudizio monocratico non sono scanditi da un apposito ritua-le, sono plasticamente raffigurati nella prescrizione dell’art. 276, secondo comma, e.p.c. in forza del quale il collegio, sotto la direzione del presidente, “decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d’ufficio e quindi il merito della causa” (la disposizione, richiamata dagli artt. 131 e141 disp. att. e.p.c., riguarda anche i giudizi di appello e di cassazione). Vi è dunque un preciso obbligo di legge di decidere prima (“gradatamente”) le questioni pregiudiziali (logiche o tecniche) e poi (“quindi”) il merito.

“Pertanto, non si può affermare che, in mancanza di una specifica statuizione, la questione di giurisdizione (presente in ogni causa) non sia stata affrontata. Se il giudice ha deciso il merito, in forza del combinato disposto degli artt. 276, secondo comma,e 37 (che impone la verifica di ufficio della potestas iudicandi), sì deve ritenere che abbia già deciso, in senso positivo, la questione pregiudiziale della giurisdizione. ……

“In definitiva, la decisione sul merito implica la decisione sulla giurisdizione e, quindi, se le parti non impugnano la sentenza o la impugnano ma non eccepiscono il difetto di giurisdizione, pongono in essere un comportamento incompatibile con la volontà di eccepire tale difetto e, quindi, si verifica il fenomeno della acquiescenza per incompatibilità con le conseguenti preclusioni sancite dagli artt. 329, secondo comma, c.p.c., e dall’art. 324 c.p.c. …… Stante l’obbligo del giudice di accertare l’esistenza della propria giurisdizione prima di passare all’esame del merito o di altra questione ad essa successiva, può legittimamente presumersi che ogni statuizione al riguardo contenga implicitamente quella sull’antecedente logico da cui è condizionata e, cioè, sull’esistenza del-la giurisdizione, in difetto della quale non avrebbe potuto essere adottata. ……”.

Altro argomento è tratto dalla Corte dalla necessaria simmetria con le disposizioni che regolano l’eccezione di incompetenza, ma non espressamente il difetto di giurisdizione, nel nuovo contesto dei principi costituzionali e internazionali: “Per completare l’illustrazione della evoluzione del quadro legislativo verso una meno rigida disciplina delle regole sulla potestà iudicandi, occorre ricordare che l’art. 38 c.p.c, sostituito dall’art. 4 della legge 353/1990, stabilisce ora che l’incompetenza per materia, quella per valore e quella territoriale inderogabile non sono rilevabili oltre la prima udienza di trattazione. …… Il legislatore del1990 non è andato oltre e non ha riformato simmetricamente l’art. 37 e.p.c., perché soltanto successivamente, con la legge 218 del 1995, è stato abrogato il principio della inderogabilità convenzionale della giurisdizione.

“Oggi, nel mutato quadro normativo (interno ed internazionale) in tema di giurisdizione (non più inderogabile) e con l’avvento della costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del pro-cesso, il principio di economia processuale non può non produrre i suoi effetti anche in relazione ai tempi concessi per il consolidamento della giurisdizione. Non ha senso giocare una partita in un campo di cui solosuccessivamente possa essere verificata la praticabili-tà. …… inoltre, la riforma dell’art. 38 c.p.c. incide sulla portata dell’art. 37 c.p.c, non soltanto in termini di principio, ma anche in termini di diretta riduzione degli spazi interpretativi ……

“Competenza e giurisdizione stanno tra loro in termini di continenza e, quindi, il giudice che si pronunci  af-fermando la propria competenza, non può non aver verificato il presupposto della giurisdizione. Infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, anche la pronuncia che declina la competenza implica l’affermazione della giurisdizione: …… Conseguentemente, se la competenza del giudice adito (che implica la sussistenza della giurisdizione) non può più essere messa in discussione dopo il termine fissato dall’art. 38 e.p.c., non si vede poi come la giurisdizione possa essere rimessa in discussione sine die. ……

“Nel mutato quadro normativo, gli effetti dell’art. 38 e.p.c., riformato, si proiettano necessariamen-te sulla portata dell’art. 37 e.p.c., nel senso che se la verifica della competenza implica la verifica della giurisdizione, quando i tempi per la verifica della competenza sono esauriti coerenza vuole che siano esauriti anche quelli per la verifica della giurisdizione;ovvero, coerenza vuole che almeno questi ultimi non siano dilatati fino al punto da essere incompatibili con la ragionevole durata del processo.

“La differenza tra quanto dispone l’art. 38 e.p.c. e quante dispone l’art. 37 e.p.c. è che questo consente di eccepire il difetto di giurisdizione anche dopo la scadenza dei termini previsti dall’art. 38 e.p.c. (non oltre la prima udienza di trattazione), e comunque mediante impugnazione della sentenza che, decidendo nel merito, abbia anche deciso (implicitamente o esplicita-mente) sulla giurisdizione. Inoltre, l’eccezione può sempre essere proposta (senza preclusioni) in tutti i casi in cui la sentenza non contenga statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come, ad esempio, quando l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo alla ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza impugnata risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione, (es. manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum, superando la progressione stabilita dal legislatore, per ragioni, anche in questo caso, di economia processuale.

“Entro questi limiti, il tenore letterale dell’art. 37 e.p.c. resta integro, salvo verifica di legittimità costituzionale, che in questa sede sarebbe irrilevante. Né il carattere marginale delle applicazioni residuali dell’art. 37 e.p.c. è argomento che possa indebolire la bontà della interpretazione recepita dal collegio: un rilievo del genere, se fosse fondato, delegittimerebbe tutte le norme previste per disciplinare fattispecie poco ricorrenti, ma necessarie per la chiusura del sistema.

“Inoltre, sarebbe un rilievo”tardivo”: l’erosione dell’area semantica dell’art. 37 c.p.c. deriva dal riconoscimento, oramai consolidato in giurisprudenza, della efficacia del giudicato interno sulla giurisdizione; riconoscimento che solo accidentalmente si è avuto prima in relazione al giudicato espresso e solo oggi in relazione al giudicato implicito. In altri termini, se, in linea di principio, il giudicato interno sulla giurisdizione è idoneo a sterilizzare il contenuto precettivo dell’art. 37 e.p.c., non rileva poi che tecnicamente si tratti di giudicato espresso o implicito, trattandosi di qualificazione che attiene alla fenomenologia del giudicato e non ai suoi effetti”.

Del resto non si pone neppure – ad avviso della Cassazione – un problema di contrasto col principio del giudice naturale[43].

Conclude la Corte: “Pertanto:

“a) fino a quando la causa non sia decisa nel merito in primo grado, il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti, anche dopo la scadenza dei termini previsti dall’art. 38 c.p.c. (anche se sarebbe opportuno un intervento legislativo di coordinamento);

“b) entro lo stesso termine le parti possono chiedere il regolamento preventivo di giurisdizione ai sensi dell’art. 41 e.p.c.;

“c) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione;

“d) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si è formato il giudicato implicito o esplicito;

“e) il giudice può rilevare anche di ufficio il difetto di giurisdizione, fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato implicito o esplicito”.

L’effetto è l’affievolimento della giurisdizione ad un’eccezione che va proposta entro termini decadenziali dalle parti e allo stesso modo essere sollevata dal giudice.

 

11. Considerazioni conclusive in tema di translatio iudicii, di unità della giurisdizione e di soluzione dei conflitti. L’ordinamento è pronto per un Tribunale dei conflitti?

11.1– Lo sviluppo della giurisprudenza in materia di giurisdizione porta ad una prima fondamentale conclusione: è decisamente tramontata l’idea della giurisdizione come semplice criterio di affermazione o negazione della competenza di un giudice in senso assoluto o in senso relativo. Né può ormai guardarsi alla giurisdizione come un profilo meramente processuale capace di limitare la tutela degli interessi giuridicamente rilevanti.

La giurisdizione è, nella prospettiva accreditata dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, lo strumento per la tutela piena ed effettiva assicurata dalla Costituzione alla posizione soggettiva, sia essa di diritto soggettivo o di interesse legittimo. E poiché la Costituzione riconosce all’articolo 24 la tutela sostanziale e non meramente formale di tali posizioni soggettive, il riparto di giurisdizione deve essere rivolto a garantire una reale ed effettiva garanzia giurisdizionale.

Tale principio ha due essenziali corollari per quanto interessa in questa sede.

Il primo è che, una volta affidata la tutela di una posizione ad un giudice, la cognizione della posizione da parte di quest’ultimo non è condizionata o limitata. In particolare, per quanto riguarda l’interesse legittimo, la tutela è sia ripristinatoria in forma specifica, attraverso l’annullamento, sia risarcitoria per equivalente e non è subordinata alla condizione che sia prima tempestivamente impugnato l’atto amministrativo che l’ha in concreto lesa.

Il secondo è che il processo non può essere fine a sé, ma deve tendere alla pronuncia di merito da parte del giudice competente, individuato immediatamente in modo corretto o in forza del giudicato implicito o per effetto della translatio iudicii.

11.2– Il primo corollario porta allo smantellamento della c.d. pregiudiziale amministrativa, che consisterebbe nella sottoposizione della domanda di risarcimento del danno da atto amministrativo illegittimo al preventivo annullamento, in sede giurisdizionale o di autotutela, dell’atto lesivo.

Ormai non sembra più dubitabile la natura sostanziale dell’interesse legittimo: sia questa una conclusione indotta dall’ordinamento comunitario, che non prevede la distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo, sia essa discendente dalla constatazione della stessa configurazione dell’interesse legittimo nel nostro ordinamento.

La risarcibilità dell’interesse legittimo non dipende dalla natura patrimoniale dello stesso.

Il tratto non convincente della sentenza n. 500 del 1999 della Corte di cassazione, pur con tutti i meriti di questa pronuncia, sta nell’artificio cui il giudice di legittimità ha dovuto far ricorso in presenza della distinzione tra giudice ordinario quale giudice del diritto e giudice amministrativo quale giudice degli interessi protetti. Artificio trovato nell’argomentazione secondo cui il diritto al risarcimento è un diritto soggettivo che spetta al momento della lesione del patrimonio e quindi anche in caso di lesione dell’interesse legittimo, omettendo però di considerare che occorre prima procedere alla verifica della consistenza delle posizioni che compongono ilo patrimonio in senso giuridico.

Non a caso, in effetti, consolidata giurisprudenza guardava alla posizione giuridica fatta valere davanti al giudice con la causa petendi e la lesione di in interesse legittimo, sia pure risarcibile, non modifica l’interesse legittimo in diritto perché, con una petizione di principio, …… c’è il diritto al risarcimento del danno.

Il danno ingiusto legittimava l’accesso al giudice ordinario perché lesivo del diritto soggettivo in base alla summa divisio. Una volta affermata (e correttamente) la risarcibilità dell’interesse legittimo, sia pure non in astratto ma in concreto e con riferimento, da un lato, alla possibilità di reiterazione della potestà amministrativa e, dall’altro, ai vincoli del giudicato sull’azione amministrativa, si trattava di individuare il giudice.

La Corte di cassazione aveva qui accelerato l’evoluzione, affermando in astratto la sussistenza del diritto al risarcimento, che invece era ed è una conseguenza, che quindi non può radicare la scelta del giudice.

Da ciò i fondati sospetti che si fosse instaurata una nuova doppia tutela e con essa la possibilità di azionare l’interesse legittimo come diritto soggettivo davanti al giudice ordinario invece che davanti giudice amministrativo, con una sostanziale disapplicazione dell’atto amministrativo pretesamente illegittimo. Disapplicazione però irrituale perche realizzata nei confronti di un atto amministrativo costituente oggetto principale della cognizione da parte del giudice ordinario dell’illecito, essendo l’illegittimità dell’atto elemento costitutivo dell’illiceità del comportamento dell’amministrazione.

Il legislatore è poi intervenuto a risolvere il problema di giurisdizione così insorto ed ha scelto di affidare la giurisdizione in materia di danni derivanti da attività pubblica dell’amministrazione al giudice amministrativo, sia in sede di giurisdizione di legittimità, quale diritto patrimoniale consequenziale, sia in sede di giurisdizione esclusiva, quale questione risarcitoria connessa.

Il fatto è che, proprio attratto dalla tradizionale configurazione del danno come diritto patrimoniale consequenziale come tale rimandato al giudice ordinario, il giudice amministrativo è stato (ed è) portato ad affermare la pregiudizialità logico-giuridica dell’annullamento. E quindi di una cognizione non solo incidentale dell’atto ai fini della pronuncia sul danno ingiusto, bensì principale con strumenti di rimozione dell’atto dal mondo giuridico.

Il merito delle recenti pronunce della Corte di cassazione sta nell’aver posto l’accenno sul fatto che la tutela dell’interesse legittimo, in quanto posizione sostanziale, comporta anche la tutela risarcitoria, naturalmente da verificare poi in fatto nelle sue componenti soggettive ed oggettive. Ma non può essere subordinata al previo annullamento dell’atto. Perché sta alla parte decidere se richiedere la tutela nella forma restitutoria piena dell’annullamento o in quella per equivalente del risarcimento del danno.

Se non fosse così, la tutela giurisdizionale del giudice amministrativo, che è il giudice dell’interesse legittimo per disposizione della Carta costituzionale, sarebbe monca e illegittima.

11.3– Il secondo corollario, si premetteva, è che il processo non può essere fine a sé, ma deve tendere alla pronuncia di merito da parte del giudice competente, individuato immediatamente in modo corretto o in forza del giudicato implicito o per effetto della translatio iudicii.

A questo proposito il legislatore ha provveduto e in modo sostanzialmente corretto.

11.4– Restano da vedere gli effetti di questi rivolgimenti sull’essenza delle giurisdizioni.

La sostanziale omogeneità di diritto soggettivo e di interesse legittimo quali posizioni soggettive del privato tutelate appieno in base alla Costituzione e all’ordinamento comunitario; la finalità della giurisdizione – a qualunque giudice appartenga – rivolta all’effettività della tutela giudiziale; la necessità che la tutela non sia condizionata dalle forme processuali e di rito ma che avvenga il contrario, portano a ritenere che ormai il processo di assimilazione delle due giurisdizioni principali sia avanzato nell’ottica dell’unità della giurisdizione, sia pure svolta con modalità distinte e con peculiarità di rito che devono auspicabilmente restare tali.

Ma se così è, resta rafforzata la sensazione che sia giunto effettivamente il momento in cui alla disciplina funzionale segue anche un nuovo assetto delle competenze. Che, in altri termini, sia maturo il tempo per la previsione di un Tribunale dei conflitti tra le diverse giurisdizioni, formato con la presenza di magistrati delle rispettive estrazioni, perché  sempre più spesso la definizione della giurisdizione dipenderà dalla soluzione, sia pure in astratto, di vicende che attengono alla disciplina in concreto delle posizioni soggettive rilevanti.

Prof. Avv. Carlo Malinconico


[1]) ORLANDO V.E., La giustizia amministrativa, in Trattato Orlando, III, Giuffrè, Milano, 1901, pag. 633 ss.

[2] CONSOLO C., Piccolo discorso sul riparto di giurisdizioni, il dialogo fra le corti e le esigenze dei tempi, Dir. proc. amm., 2007, 3, pag. 631 ss.; GIANNINI M.S., PIRAS A., Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, in Enc. Dir., XIX, Giuffrè, Milano, 1970, pag. 229 ss.

[3] ROMANO A., Osservazioni in tema di discriminazione di giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo, Foro amm., 1956, II, 1, pag. 339.

[4] SPAVENTA S., Discorso inedito per l’inaugurazione della IV Sezione del Consiglio di Stato, Riv. dir. pubbl., 1909, pag. 289 ss.

[5] RANELLETTI O., Diritti soggettivi ed interessi legittimi nella competenza: dubbi e schiarimenti, Foro it., 1893, I, pag. 470; SCIALOJA V., Sui limiti della competenza della Sezione IV del Consiglio di Stato di fronte all’autorità giudiziaria, Giust. amm., 1891, IV, pag. 59 ss.

[6] In Foro it., 1891, I, pag. 961 e Giur. it., 1891, I, 3, pag. 181.

[7] Tale criterio, invero, venne elaborato da parte della dottrina. Si veda: SCIALOJA V., Ancora sui limiti della competenza della IV Sezione del Consiglio di Stato di fronte all’autorità giudiziaria, Giust. amm., 1892, IV, pag. 50 ss.; Id., Sulla funzione della IV Sezione del Consiglio di Stato per l’articolo 24 della legge 2 luglio 1889, Giust. amm., 1901, IV, pag. 75 ss.

[8] Si veda: Cons. St., Ad. Pl., 14 giugno 1930, n. 1, in Giur. it.,1930, III, pag. 149, Foro it., 1930, III, pag. 169 e Foro amm., 1930, I, 2, pag. 249; Id., 28 giugno 1930, n. 2, in Foro it, 1931, III, pag. 9 e Riv. dir. pubb., 1930, II, pag. 513; Cass. Civ., Sez. Un., 15 luglio 1930, n. 2680, in Giur. it., 1930, I, 1, pag. 964, Foro amm., 1930, II, pag. 262 e Foro it., 1930, I, pag. 1146.

[9] CAIANIELLO V., Relazione di sintesi al 43° Convegno di Studi di scienza dell’Amministrazione, Giuffrè, Milano, 1998, pag. 322.

[10] RANELLETTI O, La giustizia amministrativa, Jovene, Napoli, 1992, pag. 198 ss.; ZANOBINI G., La giustizia amministrativa, Giuffrè, Milano, 1965, pag. 223 ss.

[11] VIRGA P., Diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 1995, II, pag. 99 ss.

[12] In generale, sulla figura dell’interesse legittimo: LEDDA F., Polemichetta breve intorno all’interesse legittimo, Giur. it., 1999, pag. 2212 ss.; NIGRO M., Ma cos’è questo interesse legittimo? Interrogativi e nuovi spunti di riflessione, Foro it., 1987, V, pag. 469 ss.; ID., Giustizia amministrativa, Il mulino, Bologna, 2002, pag. 93 ss.; SANDULLI P., Manuale di diritto amministrativo, Jovene, Napoli, 1989, pag. 105 ss.; SCOCA F.G., Sulle implicazioni del carattere sostanziale dell’interesse legittimo, in Scritti in onore di M.S. Giannini, Giuffrè, Milano, 1988, pag. 667; ID, Contributo sulla figura dell’interesse legittimo, Giuffrè, Milano, 1990, pag. 2 ss.

[13] Deve rilevarsi che la Corte di Cassazione aveva respinto la tesi cd. della prospettazione già con la sentenza delle Sezioni Unite, 24 giugno 1987, n. 428 (in Foro it., 1897, I, pag. 1363, Giur. it., 1897, I, 1, pag. 744) mettendo in evidenza che essa conduceva ad una incertezza di fondo nel riparto delle giurisdizioni in quanto assumeva come dato fisiologico che la decisione ultima sull’individuazione del giudice competente potesse dipendere da valutazioni o da scelte discrezionali della parte.

[14] BACHELET V., La giustizia amministrativa nella Costituzione italiana, in Scritti giuridici, II, pag. 451 ss.; FOLLIERI E., La giustizia amministrativa nella costituente tra unicità e pluralità delle giurisdizioni, Dir. proc. amm., 2001, 4, pag. 911 ss.; LEDDA F., Principi costituzionali di giustizia amministrativa, Jus, 1997, pag. 177 ss.; LESSONA C., La funzione giurisdizionale, in Commentario sistematico alla Costituzione italiana, Firenze, 1950, pag. 199 ss.; NIGRO M., L’art. 113 della Costituzione e alcuni problemi della giustizia amministrativa, Foro amm., 1949, I, 1, pag. 72 ss.; SILVESTRI G., Giudici ordinari, giudici speciali e unità della giurisdizione nella Costituzione italiana, in Scritti in onore di M.S. Giannini, Giuffrè, Milano, 1988, pag. 709 ss.; VERDE G., L’unità della giurisdizione e la diversa scelta del costituente, Dir. proc. amm., 2003, 2, pag. 343 ss.

[15] CANNADA BARTOLI E., La tutela giudiziaria del cittadino verso la Pubblica amministrazione, Giuffrè, Milano, 1964, pag. 153 ss.; KLITSCHE DE LA GRANGE, La giurisdizione ordinaria nei confronti delle Pubbliche amministrazioni, Cedam, Padova, 1961; TORRENTE A., La competenza del giudice ordinario e i suoi poteri di cognizione nelle controversie in cui è interessata la pubblica amministrazione, in Atti del convegno celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, la giustizia amministrativa, Vicenza, 1968, pag. 141 ss.; VIRGA P., Le azioni di condanna nei confronti della P.A. ad un fare specifico, Giust. amm. sic., 1992, pag. 449 ss.

[16] CINTIOLI F., Giurisdizione amministrativa e disapplicazione dell’atto amministrativo, Dir. amm., 2003, I, pag. 43 ss.; ROMANO A., La disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice civile, Dir. proc. amm., 1983, pag. 67 ss.

[17] CANNADA BARTOLI E., La tutela giudiziaria del cittadino verso la Pubblica amministrazione, cit., pag. 93 ss.; SATTA F., Giurisdizione e cognizione diretta del provvedimento amministrativo, Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1965; contra, SANDULLI P., Manuale di diritto amministrativo, cit., pag. 669.

[18] SANDULLI P., Manuale di diritto amministrativo, cit., pag. 1311.

([19]) NIGRO M., Giustizia amministrativa, cit., pag. 186 ss.

([20]) Il rilievo pratico relativo all’esistenza di posizioni di diritto soggettivo non autonome rispetto all’interesse pubblico ed il cui esercizio portava inevitabilmente ad interferire con l’interesse della pubblica amministrazione, portò la dottrina ad elaborare un tertium genus tra le posizioni soggettive, introducendo la figura dei diritti cd. condizionati (si veda: SANDULLI A.M., Manuale di diritto amministrativo, Jovene, Napoli, 1970, pag. 1126 ss). In particolare, si distingueva tra diritti sospensivamente condizionati e diritti risolutivamente condizionati. Con i primi, detti anche diritti in attesa di espansione, la dottrina faceva riferimento a quei diritti il cui esercizio è subordinato al verificarsi di una condizione sospensiva. Tali diritti ricorrono quando un soggetto è titolare potenzialmente di un diritto (soggettivo) il cui esercizio è subordinato all’emanazione di un provvedimento amministrativo (generalmente di carattere autorizzatorio). Con i secondi, detti anche diritti suscettibili di affievolimento, la dottrina faceva riferimento a quei diritti che possono essere limitati od estinti in seguito al verificarsi di una condizione. L’intervento dell’atto amministrativo produce quindi l’affievolimento della posizione di diritto soggettivo in interesse legittimo al corretto esercizio del potere degradatorio (a menzionare per la prima volta di diritti suscettibili di affievolimento fu FORTI U. in una nota alla sentenza Cons. St., sez. V, 13 novembre 1937, in Foro it., 1938, III, pag. 1 ss. Inoltre, cfr. AMORTH A., Figura giuridica e contenuto del diritto affievolito, in Scritti in onore di Santi Romano, II, Cedam, Padova, 1940, pag. 95 ss; POTOTSCHINIG U., Atti amministrativi e affievolimento di diritti soggettivi, in Scritti Scelti, Cedam, Padova, 1999, pag. 39 ss.). Ancor prima della svolta rappresentata dalla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 500 del 1999, la (medesima) giurisprudenza ammetteva la risarcibilità dei diritti suscettibili di affievolimento (cfr., ex multiis, Cass. Civ, Sez. Un., 5 ottobre 1979, n. 5145). Si riteneva, infatti, che la caducazione del provvedimento che affievoliva il diritto soggettivo in interesse legittimo provocasse la riespansione retroattiva del medesimo interesse legittimo in diritto soggettivo, con la conseguenza che il privato poteva far valere innanzi al giudice ordinario la lesione di un diritto soggettivo ripristinato ex tunc (tipico il caso dei provvedimento di espropriazione). Ne derivava che la medesima posizione giuridica soggettiva trovava tutela sia innanzi al giudice amministrativo sia innanzi al giudice ordinario i quali, pertanto, dall’essere investiti di poteri cognitori distinti, si ritrovavano a “cooperare” per assicurare effettiva giustizia al privato nei confronti di atti illegittimi della pubblica amministrazione.

[21] “Qualora un organo di prima istanza, che è indipendente dall’amministrazione aggiudicatrice, riceva un ricorso relativo ad una decisione di aggiudicazione di un appalto, gli Stati membri assicurano che l’amministrazione aggiudicatrice non possa stipulare il contratto prima che l’organo di ricorso abbia preso una decisione sulla domanda di provvedimenti cautelari o sul merito del ricorso. La sospensione cessa non prima dello scadere del termine sospensivo di cui all’articolo 2 bis, paragrafo 2, e all’articolo 2 quinquies, paragrafi 4 e 5”.

[22] “Inoltre, tranne che nei casi in cui una decisione debba essere annullata prima della concessione di un risarcimento danni, uno Stato membro può prevedere che, dopo la conclusione di un contratto a norma dell’articolo 1, paragrafo 5, del paragrafo 3 del presente articolo o degli articoli da 2 bis a 2 septies, i poteri dell’organo responsabile delle procedure di ricorso si limitino alla concessione di un risarcimento danni a qualsiasi persona lesa da una violazione” (paragrafo 7).

[23] Articolo 2 quinquies: “1. Gli Stati membri assicurano che un contratto sia considerato privo di effetti da un organo di ricorso indipendente dall’amministrazione aggiudicatrice o che la sua privazione di effetti sia la conseguenza di una decisione di detto organo di ricorso nei casi seguenti:

“a) se l’amministrazione aggiudicatrice ha aggiudicato un appalto senza previa pubblicazione del bando nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea senza che ciò sia consentito a norma della direttiva 2004/18/CE;

“b) in caso di violazione dell’articolo 1, paragrafo 5, dell’articolo 2, paragrafo 3, o dell’articolo 2 bis, paragrafo 2, della presente direttiva qualora tale violazione abbia privato l’offerente che presenta ricorso della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipula del contratto quando tale violazione si aggiunge ad una violazione della direttiva 2004/18/CE, se quest’ultima violazione ha influito sulle opportunità dell’offerente che presenta ricorso di ottenere l’appalto;

“c) nei casi di cui all’articolo 2 ter, lettera c), secondo comma della presente direttiva qualora gli Stati membri abbiano previsto la deroga al termine sospensivo per appalti basati su un accordo quadro e su un sistema dinamico di acquisizione.

“2. Le conseguenze di un contratto considerato privo di effetti sono previste dal diritto nazionale.……

“3. Gli Stati membri possono prevedere che l’organo di ricorso indipendente dall’amministrazione aggiudicatrice abbia la facoltà di non considerare un contratto privo di effetti, sebbene lo stesso sia stato aggiudicato illegittimamente per le ragioni di cui al paragrafo 1, se l’organo di ricorso, ……, rileva che il rispetto di esigenze imperative connesse ad un interesse generale impone che gli effetti del contratto siano mantenuti. In tal caso gli Stati membri prevedono invece l’applicazione di sanzioni alternative a norma dell’articolo 2 sexies, paragrafo 2.

“Per quanto concerne la produzione di effetti del contratto, gli interessi economici possono essere presi in considerazione come esigenze imperative soltanto se in circostanze eccezionali la privazione di effetti conduce a conseguenze sproporzionate.……

“4. Gli Stati membri prevedono che il paragrafo 1, lettera a), del presente articolo, non si applichi quando:……

“5. Gli Stati membri prevedono che il paragrafo 1, lettera c), del presente articolo, non si applichi quando:

……

([24]) In Giust. civ., 1999, I, pag. 2261 ss., Guida al diritto, 1999, f. 31, pag. 36 ss, Foro it., 1999, I, pag. 2487 ss.

([25]) ALIBRABDI T., La sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite della Cassazione relativa alla risarcibilità degli interessi legittimi: continua il dibattito, Giust. civ., 2000, 4, pag. 199 ss.; ALPA G., SANINO M., STELLA RICHTER P., Prime riflessioni sulla sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite della Cassazione relativa alla risarciblità della lesione degli interessi legittimi, Ibidem, 1999, 10, pag. 427 ss.; ALPA G., Il revirement della Corte di Cassazione sulla responsabilità per la lesione di interessi legittimi, Resp. civ. e prev., 1999, 4-5, pag. 907 ss.; CUGURRA G., Risarcimento dell’interesse legittimo e riparto di giurisdizione, Dir. proc. amm., 2000, 1, pag. 1 ss.; MORELLI M.R., Le fortune di un obiter: crolla il muro virtuale della irrisarcibilità degli interessi legittimi, Giust. civ., 1999, 9, pag. 2261 ss.; ROMEO G., La giurisdizione amministrativa tra presente e futuro, Dir. proc. amm., 2000, 1, pag. 121 ss.; SALEMME A.A., Interesse legittimo e risarcimento del danno: questioni di riparti di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, Foro amm., 2000, 6, pag. 2062.

[26] AULETTA F., La ragionevole durata del processo amministrativo, Dir. proc. amm., 2007, 4, pag. 959.

[27]BACCARINI S., La giurisdizione esclusiva e il nuovo riparto, Dir. proc. amm., 2003, 2. pag. 365 ss.; BERTONAZZI L., In tema di giurisdizione esclusiva, Dir. proc. amm., 2000, 3, pag. 929 ss.; CAIANIELLO V., Il giudice amministrativo ed i nuovi criteri di riparto delle giurisdizioni, Foro amm., 1998, 6, pag. 1943 ss.

[28] ROMANO A., Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la legge n. 205 del 2000 (epitaffio per un sistema), Dir. proc. amm., 2001, 3, pag. 602 ss.

[29] In Dir. e giust., 2004, f. 29, pag. 16 ss.; Dir. proc. amm., 2004, pag. 799 ss.; Foro amm. CDS, 2004, pagg. 1895-2475; Giur. cost., 2004, pag. 4 ss.; Resp. civ. e prev., 2004, pag. 1003 ss.; Servizi pubbl. e appalti, 2004, pag. 570 ss.

[30] CERULLI IRELLI V., Giurisdizione esclusiva e azione risarcitoria nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 6 luglio 2004 (osservazioni a primissima lettura), Dir. proc. amm., 2004, 3, pag. 820 ss.; DELLE DONNE C., Passato e futuro della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nella sentenza della Consulta n. 204 del 2004: il ritorno al «nodo gordiano» diritti-interessi, Giust. civ., 2004, 10, pag. 2237; FRACCHIA F., La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: un istituto che ha esaurito le sue potenzialità?, Serv. pubbl. e appalti, 2004, 4, pag. 799 ss; MAZZAROLI L., Sui caratteri e sui limiti della giurisdizione esclusiva: la Corte costituzionale ne ridisegna l’ambito, Dir. proc. amm., 2004, pag. 214 ss.; ROSSETTI M., Riparto di giurisdizione. La Consulta fissa i paletti, Dir. e giust., 2004, f. 29, pag. 10 ss.; VILLATA R., Leggendo la sentenza n. 204 della Corte costituzionale, Dir. proc. amm., 2004, pag. 832 ss.

[31] In Dir. proc. amm., 2007, 3, pag. 796 ss.; Foro amm. CDS, 2007, 7-8, pag. 2103 ss.; Foro it., 2007, 4, pag. 1009 ss.; Giur. it., 2007, 10, pag. 2253 ss.; Giust. civ., 2007, 3, pag. 553 ss.; Guida al diritto, 2007, f. 13, pag. 89 ss.;

[32] CACCIAVILLANI C., Translatio iudicii tra Corte di cassazione e Corte costituzionale, Dir. proc. amm., 2007, 4, pag. 1023 ss.; GIORDANO R., Translatio iudicii cd. orizzontale in tema di giurisdizione: considerazioni de iure condito e de iure condendo, Giur. merito, 2009, 4, pag. 913 ss.; SCOGNAMIGLIO A., Corte di cassazione e Corte costituzionale a favore di una pluralità dei giudici compatibile con effettività e certezze della tutela, Dir. proc. amm., 2007, 4, pag. 1103 ss.; SIGISMONDI G., Difetto di giurisdizione e translatio iudicii, Dir. amm. amm., 2007, 3, pag. 813 ss.

[33] Cass. Civ., Sez. Un., 22 febbraio 2007, n. 4109, in Dir. proc. amm., 2007, 3, pag. 796 ss.; Foro amm. CDS, 2007, 5, pag. 1376 ss.; Foro it., 2007, 4, pag. 1010 ss.; Guida al diritto, 2007, f. 13, pag. 94 ss.

[34] La sentenza aggiunge: “nella specie oggetto di specifico mezzo d’impugnazione per cassazione, ma, comunque, rilevabile ex officio in questa sede”. C’è da chiedersi se l’inciso sia coerente col sistema delle preclusioni processuali sancite dalla stessa Corte in tema di rilevazione del difetto di giurisdizione.

([35]) La Corte di cassazione richiamava le limitate eccezioni all’indirizzo prevalente in materia di commissione tributaria regionale e di giurisdizione nei confronti dello straniero, confutata dalla dottrina: “In altra precedente statuizione (Cass., n. 5357/87), aveva, altresì, ritenuto, in applicazione analogica dell’art. 50 cod. proc. civ., che, in tema di responsabilità del vettore relativamente alle merci trasportate, non si verifica la prevista decadenza per il mancato esercizio dell’azione entro il termine dell’anno quando la domanda, proposta tempestivamente innanzi al giudice straniero privo di competenza giurisdizionale, sia tempestivamente riassunta innanzi al giudice nazionale nel termine di sei mesi dalla pronuncia declinatoria sulla giurisdizione del giudice straniero medesimo. ……  La dottrina, in prevalenza, a sua volta affermava che ciò che valeva per la competenza non poteva valere anche per la giurisdizione in mancanza di una norma specifica, parallela a quella posta dall’art. 50 cod. proc. civ., e ribadiva che l’effetto impeditivo della decadenza (da collegare ad un evento a tal fine idoneo, non già alla espressione di semplice volontà sostanziale del soggetto agente) non poteva derivare, in modo ritualmente recettizio, dalla domanda giudiziale a qualsiasi giudice rivolta, ma supponeva la valida instaurazione del processo davanti al giudice fornito di giurisdizione, sì che ne fosse stato possibile in prosieguo un esito tale da definire il merito della controversia. Con allargato riferimento al tema del difetto di giurisdizione del giudice nazionale nei confronti del giudice straniero, la dottrina, inoltre, decisamente rifiutava la statuizione di Cass., n. 5357/87. Analogamente considerava che neppure nella Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 (concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile, resa esecutiva in Italia con la L. 21 giugno 1971, n. 804) esisteva una norma che consentisse la prosecuzione del giudizio avanti al giudice straniero relativamente ad un’azione instaurata avanti al giudice nazionale dichiaratosi privo di competenza giurisdizionale ed escludeva che, nel caso suddetto, potesse farsi luogo alla translatio iudicii per effetto della disciplina dettata dalla Convenzione medesima al fine di distribuire la competenza giurisdizionale fra i giudici degli Stati membri nei casi previsti di connessione di cause e di contemporanea pendenza della medesima causa innanzi a giudici di Stati diversi, giacchè la disciplina sulla connessione e sulla litispendenza riguardava pur sempre ipotesi in cui sussisteva la competenza giurisdizionale in capo ai diversi giudici nazionali. In tale generale contesto non erano mancate, tuttavia, autorevoli opinioni contrarie, che, procedendo dal principio fondamentale dei nostri Autori classici seconde cui il processo deve tendere ad una sentenza di merito, avevano posto in risalto come – anche con riguardo ai rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale, nell’evidente interesse del litigante di evitare gli ostacoli inutili ed i danni non necessari della lite e dello Stato di spendere nel migliore dei modi l’opera dei suoi organi – dovesse essere assicurata, unitamente alla conservazione degli effetti della domanda proposta al giudice privo di giurisdizione, la trasmigrabilità della causa al giudice che ne sia fornito”.

([36]) TAR Liguria, 21 novembre 2005, n. 148

[37] In Gazz. Uff., 19 giugno 2009, n. 140, S.O.

[38] Non si può non convenire con Cass. SS.UU. 9 ottobre 2008, n. 24883 “L’evoluzione del quadro legislativo, ordinario e costituzionale, mostra 1’affievolimento della centralità del principio di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, accompagnata dalla simmetrica emersione della esigenza di sburocratizzare la giustizia, non più espressione esclusiva del potere statale, ma servizio per la collettività, che abbia come parametro di riferimento l’efficienza delle soluzioni e la tempestività del prodotto-sentenza, in un mutato contesto globale in cui anche la giustizia deve adeguarsi alle regole della concorrenza (si parla infatti di concorrenza degli ordinamenti giuridici). Ritiene il Collegio che la norma abbia subito una profonda e progressiva erosione ad opera del legislatore ordinario e delle nuove indicazioni ermeneutiche venute dal legislatore costituzionale (oltre che della ricordata giurisprudenza)”.

[39] In dottrina, Campeis -De Pauli, Le regole europee ed internazionali del processo civile italiano, 2009, CEDAM, Padova, 2009, p. 309. In giurisprudenza, Cass. SS.UU. 9 ottobre 2008, n. 24883: “La disposizione in esame, nella sua connotazione originaria, costituiva il fulcro di un sistema, di cui era anche norma di chiusura, in quanto individuava nell’esercizio della giurisdizione e nel suo riparto una tipica espressione della sovranità statale e del suo monopolio legislativo, insensibile ai comportamenti e alla volontà degli utenti della giustizia (salvo par-ticolarissime eccezioni). Infatti, l’art. 2 e.p.c. stabiliva il principio della inderogabilità convenzionale della giurisdizione, che non affievoliva neanche in caso di litispendenza internazionale: “La giurisdizione italiana non è esclusa dalla pendenza davanti a un giu-dice straniero della medesima causa o di altra con que-sta connessa” (art. 3 e.p.c.). Il secondo comma dell’art. 37 e.p.c., poi, estendeva la regola della rilevabilità di ufficio in ogni stato e grado del procedimento anche al difetto di giurisdizione del giudice italiano anche nei confronti dello straniero”.

([40]) Cass. Civ., Sez. Un., 9 ottobre 2008, n. 24883, in Foro it., 2009, 3, pag. 806 ss.; Giust. civ., 2009, 1, pag. 47 ss. Per un primo commento SANDULLI M.A., Dopo la “transaltio iudicii”, le Sezioni Unite riscrivono l’art. 37 c.p.c. e muovono un altro passo verso l’unità della tutela (a primissima lettura in margine a Cass.SS.UU., 24883 del 2008 e sui suoi possibili riflessi sulla doppia giurisdizione sui contratti pubblici), www.federalismi.it, n. 19/2008.

[41] La Corte ritiene che l’assunto del giudicato implicito sulla giurisdizione può conciliarsi con la regola secondo la quale il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo (art. 37, primo comma, c.p.c.). “Intanto, sul piano metodologico, va precisato che, trattandosi di norma che appare ictu oculi in contrasto con il generale principio di economia processuale, … deve essere interpretata in senso restrittivo e residuale. … Questa Corte “ritiene che la costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo imponga all’interprete una nuova sensibilità ed un nuovo approccio interpretativo, per cui ogni soluzione che si adotti nella risoluzione di questioni attinenti a norme sullo svolgimento del processo deve essere verificata non solo sul piano tradizionale della sua coerenza logico concettuale, ma anche e soprattutto, per il suo impatto operativo sulla realizzazione del detto obiettivo costituzionale” (Cass. 44636/2007). …… L’evoluzione giurisprudenziale, nel quadro della interpretazione sistematica, porta alla conclusione chela portata precettiva dell’art. 37 c.p.c. deve essere contenuta in limiti più ristretti di quelli autorizzati dalla lettera della legge {lex plus dixit quam voluit). Occorre ora chiedersi se, tenuto conto del mutato quadro normativo-sistematico, delle esigenze di coerenza del sistema e di tempestività delle decisioni, non sia legittimo ritenere che la norma non operi anche in presenza di un giudicato implicito sulla giurisdizione. Sul piano della coerenza del sistema, sarebbe del tutto ingiustificato ritenere che il giudicato implicito non abbia lo stesso effetto preclusivo del giudicato esplicito, posto che incombe su tutti i soggetti del rapporto processuale l’obbligo di controllare il corretto esercizio della potestas iudicandi, fin dalle prime battute processuali, proprio in forza dell’art.37 c.p.c., anche quando la questione non venga espressamente sollevata. In altri termini, il giudice deve innanzitutto “autolegittimarsi” (art. 276, secondo com-ma, c.p.c.) ed eventualmente rilevare subito il difetto di giurisdizione (art. 37 c.p.c.) e, quindi, il suo silenzio equivale ad una pronuncia positiva, così come il silenzio delle parti vale acquiescenza (art. 329c.p.c): una sorta di trilaterale “silenzio assenso” giurisdizionale. …… Ne deriva che la portata dell’art. 37 e.p.c. riacquista la sua massima espansione soltanto quando il tenore della decisione (che attenga al rito o al merito) sia tale da escludere qualsiasi forma di implicita delibazione sulla giurisdizione. Ciò in quanto, se c’è una decisione (implicita o esplicita) errata sulla giurisdizione, questa non può e non deve …… sfuggire al triplice (attore-convenuto-giudice) costante controllo imposto dall’art. 37 e.p.c. Questa disposizione, infatti, non si limita ad attribuire una facoltà ai soggetti processuali, ma impone loro un vero e proprio obbligo (investendo anche le parti di una funzione pubblica di vigilanza processuale) che sorge in qualunque stato e grado del processo la questione affiori: “il difetto di giurisdizione … è rilevato”(art. 37, primo comma, e.p.c.). …..

[42] “Ancor prima, però, occorre pronunciarsi sulla ammissibilità della eccezione di difetto di giurisdizione del giudice tributario, sollevata da una parte …… la quale, soccombente in primo grado, ha appellato la sentenza di merito senza nulla eccepire circa la potestas iudicandi del giudice che l’ha pronunciata. E’ noto, però, che l’art. 329, secondo comma,e.p.c., dispone che “L’impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate”. Se i giudici tributari avessero espressamente affermato la propria giurisdizione (su istanza di parte o d’ufficio) contestualmente alla decisione di merito, la mancata impugnazione della relativa statuizione, avrebbe determinato 1’effetto dell’accettazione della stessa da parte dell’appellante e/o del passaggio in giudicato (esplicito) del relativo capo della sentenza con l’effetto preclusivo dì cui all’art. 324 e.p.c., nonostante il disposto dell’art. 37, 1° comma, c.p.c.,  … Nella specie i giudici di merito non hanno dedicato un capo della sentenza alla questione della giu-risdizione. Ma non per questo si può ritenere che la questione non sia stata affrontata e decisa. Qualsiasi decisione di merito implica la preventiva verifica della potestas iudicandi; tale verifica, in assenza di formale eccezione o questione sollevata di ufficio, avviene comunque de plano (implicitamente) e acquista”visibilità” soltanto nel caso in cui la giurisdizione del giudice adito venga negata. In linea di principio,se la questione della giurisdizione non viene sollevata in alcun modo, significa che non vi è nessuna necessità che il giudice “mostri le proprie credenziali”. Ma, il fatto che la decisione non sia “visibile”, non significa che sia inesistente. Il giudice che decide il merito ha anche già deciso di poter decidere. …..

[43] “… la riduzione degli spazi processuali per eccepire il difetto di giurisdizione potrebbe confliggere con il principio del giudice naturale precostituito per legge cui nessuno può essere sottratto (art. 25,primo comma, Cost.) o con le altre norme costituzionali sulla giurisdizione (artt. 111/113). Quanto al rispetto principio del giudice naturale, in forza del quale nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge, la Corte costituzionale è già stata investita della questione proprio in relazione allo sbarramento previsto dell’art. 38 c.p.c. riconoscendone la legittimità (ord. 128/1999). Il giudice delle leggi ha escluso che l’art. 38 c.p.c., ponendo un limite temporale alla rilevabilità dell’incompetenza e consentendo la trattazione della causa da parte di un giudice carente del potere giurisdizionale,nei casi in cui l’incompetenza non sia tempestivamente rilevata, si ponga in contrasto con il principio della precostituzione del giudice, in quanto permette la sostituzione del giudice naturale con altro giudice, il quale verrebbe ad acquisire il potere giurisdizionale non in forza di una previsione normativa, ma per una mera omissione delle parti le quali potrebbero anche accordarsi per scegliere un giudice incompetente”.

Prof. Avv. Carlo Malinconico